Con l’approvazione da parte dei lavoratori dell’accordo quadriennale definito il 16 ottobre, è terminato lo sciopero indetto dalla United Automobile Workers alla General Motors. Un’azione di lotta durata 40 giorni e che ha costituito non solo il primo sciopero attuato nella stessa General Motors dopo una fermata di 2 giorni verificatasi nel 2007, cioè ben 12 anni fa, ma anche lo sciopero più lungo attuato nel settore auto negli ultimi 50 anni, almeno per ciò che riguarda gli Stati Uniti.
La notizia dell’accordo e della conseguente cessazione dello sciopero è stata data dalla stessa UAW con un comunicato uscito nella serata di venerdì 25 ottobre, cioè quando in Italia era già notte e stava prendendo avvio il fine settimana. E forse questa coincidenza temporale può spiegare, almeno in parte, perché questa stessa notizia sia stata trascurata, salvo poche eccezioni, dai mezzi di informazione italiani. E sì che, come si dice nel gergo giornalistico, la notizia c’era. E ciò non solo per i due record di questo sciopero – cronologico e di durata – sopra richiamati, ma almeno per altre due ragioni.
Ragione numero uno: natura e proporzioni dei contendenti. Da un lato la General Motors, che è la prima casa costruttrice di auto degli Stati Uniti, nonché una delle prime tre al mondo. Dall’altro la United Automobile Workers, ovvero il sindacato dei lavoratori dell’auto più famoso del pianeta Terra.
Ragione numero due: alla base di questo scontro c’erano, ovviamente, motivi – per così dire – locali, tipicamente statunitensi. Ma, come vedremo, questi motivi costituiscono la declinazione locale di fenomeni globali. Ovvero di fenomeni che interessano anche l’Europa e, al suo interno, l’Italia.
All’origine di questo aspro conflitto industriale, che ha preso avvio lunedì 16 settembre, c’erano due fattori principali.
In primo luogo, c’era quello che potremmo definire come fattore aziendale. Costituito dal fatto che, per giudizio unanime degli osservatori, negli ultimi anni gli affari della General Motors, sotto la guida brillante della Ceo Mary Barra, sono andati piuttosto bene (nel 2018 ha conseguito profitti pari a 8 miliardi di dollari), mentre le retribuzioni dei dipendenti erano rimaste da tempo al palo. Lo scadere del precedente contratto quadriennale di gruppo ha offerto, quindi, al sindacato l’occasione per mettere in piedi una bella lotta acquisitiva. Rispondendo così a un’esigenza tanto più avvertita dai lavoratori che ricordavano che nel 2009, al momento della crisi verticale dell’industria dell’auto a stelle e strisce, avevano consapevolmente accettato di fare delle concessioni all’azienda, tra cui l’introduzione di tetti retributivi per tutti i dipendenti, nonché l’introduzione della possibilità per l’azienda stessa di assumere lavoratori a tempo determinato, destinatari di paghe inferiori a quelle dei loro compagni di lavoro assunti in precedenza a tempo indeterminato. I circa 48.000 lavoratori della GM si aspettavano quindi che adesso fosse finalmente venuto il loro turno di incassare qualcosa di positivo.
In secondo luogo, c’era invece quella che potremmo definire come declinazione “locale” di un fenomeno globale: la complessa fase di difficoltà oggi attraversata dall’industria dell’auto. Infatti, nel novembre del 2018 la General Motors aveva annunciato di voler chiudere cinque stabilimenti nell’America Settentrionale – di cui quattro negli Stati Uniti e uno in Canada -, tagliando circa 14.000 posti di lavoro, oltre a tre stabilimenti in altre parti del Mondo.
Chiusure e tagli motivati con un rallentamento nelle vendite delle autovetture, nonché con una crescita dei costi e con la necessità di concentrarsi sui veicoli elettrici e a guida autonoma. Ovvero, aggiungiamo noi, con la necessità di sostenere investimenti impegnativi, innanzitutto, in termini di ricerca e sviluppo in relazione a modelli di nuova concezione, e poi, in prospettiva, rispetto alla costruzione di nuovi impianti per realizzare tali modelli, a partire da una nuova componentistica (leggi, innanzitutto, batterie per veicoli elettrici).
A questo annuncio, al momento, la UAW aveva risposto definendo “profondamente sbagliata” l’idea della GM di chiudere stabilimenti nel Nord America mentre aumentava la produzione di autoveicoli in Cina o in Messico.
Sia come sia, nel luglio di quest’anno si avviano le trattative fra General Motors e United Automobile Workers per il rinnovo del contratto quadriennale. Il sindacato si presenta al tavolo negoziale con una piattaforma articolata, in cui alle richieste relative alle retribuzioni si aggiungono richieste relative ai diritti dei lavoratori assunti a tempo determinato e, soprattutto, la richiesta di rinunciare ai tagli annunciati. Non è quindi un caso che le posizioni delle parti rimangano distanti per i primi due mesi di trattative. Fino a domenica 15 settembre quando Terry Dittes, vice presidente della UAW incaricato dei rapporti con la stessa GM, annuncia a Detroit, in una conferenza stampa appositamente convocata, che il giorno dopo sarebbe partito lo sciopero. Dando per scontato ciò che è ovvio in America, ma non in Europa, ovvero che si sarebbe trattato di uno sciopero a oltranza.
E’ cominciata così una fase complessa della vertenza General Motors. Fase in cui i lavoratori scioperavano mentre i negoziatori di entrambe le parti proseguivano gli incontri, inframezzati da una guerra di comunicati in cui l’azienda cercava di scavalcare il sindacato, rivolgendosi direttamente ai lavoratori, mentre il sindacato accusava la controparte di voler affamare gli scioperanti.
Fatto sta che, a quanto pare, i circa 48.000 lavoratori attivi presso la GM hanno risposto bene all’appello alla lotta della UAW. Nell’ambito di una buona copertura mediatica, gli schermi televisivi, e quelli dei diversi device collegati a Internet, si sono riempiti delle immagini dei classici picchetti “all’americana”, con gruppi di lavoratrici e di lavoratori che innalzavano i non meno classici cartelli a colori recanti la scritta “UAW On Strike”.
Tanto che, nella dichiarazione con cui venerdì 25 ottobre ha annunciato la fine dello sciopero, il già citato Terry Dittes ha potuto dire, non senza una certa enfasi, che il sindacato è fiero dei suoi iscritti alla GM; iscritti che “hanno conquistato le menti e i cuori di una nazione”.
Ma veniamo ai contenuti dell’accordo, cominciando con gli aumenti retributivi.
In primo luogo il sindacato ha ottenuto un premio di ratifica dell’intesa, pari a 11.000 dollari per ogni dipendente. In secondo luogo, l’accordo prevede due successivi aumenti dei salari in essere pari al 3%. Il primo scatterà nel secondo anno di validità dell’accordo, mentre per il secondo aumento i lavoratori dovranno aspettare il quarto anno. In terzo luogo, sia nel primo che nel terzo anno gli stessi lavoratori riceveranno un’erogazione “una tantum”, pari al 4%. In quarto luogo, il contratto rimuove il tetto che limitava la partecipazione agli utili dei dipendenti. Inoltre, l’intesa prevede che l’azienda mantenga i livelli attuali per ciò che riguarda la sua capacità di rifondere le spese sanitarie eventualmente sostenute dagli stessi dipendenti.
Le conquiste che però Terry Dittes ha messo in primo piano sono quelle relative ai diritti dei lavoratori a tempo determinato. In pratica, l’accordo crea un “clear path”, come ha scritto il sito della Bbc, cioè un percorso che consentirà ai dipendenti “temporanei” che abbiano lavorato nell’azienda per almeno tre anni di raggiungere lo status dei lavoratori a tempo indeterminato. Il che, a quanto si comprende, dovrebbe consentire, almeno per loro, il superamento di quella “two-tier wages structure”, ovvero di quella struttura retributiva fondamentalmente diseguale che, sempre secondo Terry Dittes, ha “afflitto la classe lavoratrice americana”.
Ricapitolando, grazie a una lotta particolarmente lunga e dura, i lavoratori della General Motors si sono ripresi senza sconto, nel 2019, quello che avevano concesso all’azienda dieci anni prima. Si sono ripresi, cioè, quello cui avevano dovuto rinunciare nel momento in cui la crisi globale, insorta nel 2007 come crisi finanziaria, aveva investito, nel biennio 2008-2009, anche l’industria dell’auto, a partire dagli Stati Uniti.
Rispetto alla piattaforma rivendicativa iniziale, c’è però un tema che manca all’appello: quello della difesa degli impianti e degli stabilimenti destinati alla chiusura. Su questo punto, infatti, l’accordo non dice nulla di esplicito. Dal che si può ricavare che l’azienda si è tenuta le mani libere.
Che morale si può trarre da questa storia?
In primo luogo, che la lotta, entro certi limiti, paga. Almeno finché si tratta di redistribuzione del reddito (in questo caso, all’interno di una grande azienda).
Sempre secondo il sito della Bbc, lo sciopero, che ha bloccato le fabbriche della General Motors per 6 settimane, è costato alla compagnia qualcosa come 2 miliardi di dollari. I dirigenti della stessa GM, dopo un’iniziale resistenza, si sono quindi visti costretti, a un mese di distanza dall’inizio della lotta sindacale, ad alzare le loro controfferte per evitare che le perdite subite in termini di mancata produzione e mancate vendite diventassero troppo costose. E, da questo punto di vista, non è forse un caso che a questa parte finale della trattativa, conclusasi il 16 ottobre con la definizione du una bozza di accordo, abbia preso parte direttamente la stessa Mary Barra.
Il che significa, probabilmente, che manager di ampia visione, quale è sicuramente la stessa Barra, sanno che, per competere nelle durissime condizioni attuali, occorre avere in fabbrica una manodopera coesa e soddisfatta. “Sono orgogliosa di assicurare posti di lavoro ben pagati a decine di migliaia di lavoratori in America e di far crescere i nostri investimenti negli Stati Uniti”, ha infatti dichiarato Mery Barra dopo la fine dello sciopero.
Il secondo insegnamento che si può forse ricavare da questa storia è invece che anche un sindacato forte come la UAW si trova in difficoltà se cerca di condizionare le scelte strategiche di una grande impresa. O, per lo meno, si trova in difficoltà se cerca di cambiare delle scelte strategiche che siano state assunte non per capriccio o per pigrizia intellettuale, ma in base a serie analisi relative alle tendenze prevalenti in un mercato globalizzato quale è quello dell’auto.
In altre parole, così come Obama non è riuscito a riportare in California i posti di lavoro del settore della Information and Communication Tecnology migrati in Cina quando la Apple era ancora guidata da Steve Jobs, non pare che Trump stia riuscendo a riportare nel Michigan o dell’Ohio i posti di lavoro dell’industria dell’auto che sono migrati in Messico.
Non è quindi un caso che, dopo aver raggiunto con la General Motors un “tentative agreement”, ovvero una bozza di accordo, il 16 ottobre, la UAW abbia mantenuto in piedi lo sciopero, picchetti compresi, fino alla firma definitiva dell’accordo.
Infatti, dopo che il 17 ottobre il sindacato, a livello nazionale, ha approvato la bozza di intesa, i dipendenti del gruppo sono stati chiamati a ratificarla tramite un referendum organizzato in tutti i posti di lavoro. Ora, a parte la propaganda di gruppuscoli estremisti che in rete invitavano i lavoratori a bocciare l’accordo, le vere difficoltà incontrate dal sindacato sono state quelle connesse al fatto che l’azienda non ha rivisto, sostanzialmente, i suoi progetti relativi a tagli e chiusure.
Tommy Wolikow, un operaio che lavorava nello stabilimento di Lordstown, nell’Ohio, uno di quelli destinati alla chiusura, prima di essere trasferito a quello di Flint, nel Michigan, a 250 miglia da casa (e dalla famiglia), ha raccontato alla Cnn di aver sperato che questo trasferimento fosse temporaneo. Sperava, infatti, che il nuovo contratto avrebbe obbligato la GM a spostare produzione dal Messico verso gli USA e a riaprire Lordstown. Senza lavoro a Lordstown, ha detto quindi Wolikow, molti di noi voteranno “No”.
Ora alcuni analisti hanno osservato che dopo una non probabile, ma non impossibile, bocciatura della bozza di accordo, per la UAW sarebbe stato molto difficile ripartire con lo sciopero. Ciò spiega perché l’iniziativa di lotta sia stata mantenuta per un’altra settimana, ovvero fino al termine del referendum. Una consultazione in cui il “Sì” ha prevalso col 57% dei voti.
Va detto, infine, che, in vista dell’impegnativa vertenza con la General Motors, la UAW aveva proposto a Ford e Fca, le altre due maggiori case costruttrici attive negli USA, di prorogare la vigenza dei rispettivi contratti di gruppo. Adesso che la vertenza con GM si è però conclusa, la UAW ha aperto quella con la Ford. Poi toccherà a Fca.
@Fernando_Liuzzi