L’ultima, si fa per dire, moda è la caccia al sindacato. Verrebbe da dire il safari al sindacato. Sarà interessante leggere l’ultimo libro di Stefano Livadiotti, che parla del sindacato come di una casta, perché certamente dirà cose interessanti sulle confederazioni, sui loro vizi. Parlerà poco delle loro virtù, per nulla della loro necessità. Perché, appunto, non è di moda parlare bene del sindacato. La tendenza è quella di discreditare il loro lavoro, criticarli, con l’intento, non velato, di eliminarli, quanto meno ridurne la capacità offensiva, nella certezza che fanno del male al Paese.
Assunto questo peraltro non facile da dimostrare. Perché è indubbio che di colpe ne abbiano tante le confederazioni sindacali dei lavoratori, che abbiano poca capacità di adattarsi, di seguire i reali bisogni del Paese, di saper rispondere alle esigenze del mercato con prontezza, di essere in linea con i tempi dell’economia. Ma è altrettanto vero che in questi anni hanno contribuito non poco alla crescita del Paese, sono state elemento di stabilità, quindi di certezze in momenti anche difficili della nostra storia.
Per capirlo basta pensare a come sarebbe il nostro Paese senza i sindacati, senza i sindacati confederali che adesso si dice siano una casta, in quanto tale ricca di privilegi e immune da qualsiasi attacco. Senza i sindacati la vita delle aziende sarebbe certamente più difficile, perché le rivendicazioni dei lavoratori non per questo finirebbero, al contrario troverebbero ben altri canali in quei sindacati corporativi che nessun veto o voto riuscirebbe a eliminare. I sindacati confederali sono particolari proprio per la loro confederalità, perché, avendo al loro interno i lavoratori di tutti i comparti economici, sono per forza di cose obbligati a cercare sempre soluzioni che tengano conto dei diversi interessi che si scontrano, in ciascuna vertenza.
Senza i sindacati confederali o con sindacati più deboli gli equilibri di forze sarebbero diversi da quelli attuali, ma nulla ci dice che sarebbero più convenienti per il Paese. Ci sarebbe meno equità, meno giustizia sociale, più disordine, prevarrebbe il diritto del più forte e abbiamo nel nostro passato l’esperienza di un tale stato di cose e non si può dire che ne siamo stati soddisfatti.
A questo dovrebbero pensare non solo chi parla di caste un po’ a sproposito, ma anche chi professa l’utilità di contratti non più nazionali o locali, ma personali, stretti direttamente tra aziende e lavoratori. Contratti che certamente eliminerebbero la noia e l’impaccio dei sindacati, ma non aiuterebbero certamente i lavoratori, lasciati da soli a vedersela con soggetti, le aziende, certamente e storicamente più forti di loro. Perfino i sindacati dei dirigenti d’azienda industriale, i lavoratori più forti che ci siano, una volta imboccata la strada della contrattazione salariale diretta tra i loro iscritti e le imprese hanno dovuto rendersi conto della difficoltà a tradurre in pratica le loro aspettative.
Il che non significa che i sindacati non abbiano commesso, e commettano errori, anche gravi, basterebbe l’episodio Alitalia per dimostrare come sia facile commettere errori imperdonabili. La faciloneria ha imperato sovrana nei rapporti sindacati all’interno di questa azienda e i risultati disastrosi stanno a dimostrare la necessità di una correzione profonda. Ma, appunto, si tratta allora di correggere, rivedere, sostituire, non di cancellare. E’ evidente che l’azione dei sindacati debba essere corretta in tanta parte, che forse la selezione debba essere più severa, ma questi risultati si ottengono dando forza ai sindacati, anche per renderli più autonomi dalla politica, che è fattore di corruzione, non di crescita del sindacato. Forse le caste del nostro Paese abitano altrove.
7 aprile 2008
Massimo Mascini