Si sapeva già che era un regalo. Ora sappiamo anche che è stato un flop: nei numeri, nei principi, nell’immagine. Il concordato fiscale doveva essere la prova che l’ideologia del fisco amico, anziché occhiuto e vigilante, consente di rastrellare maggior gettito con minor disagio sociale, anzi finanziando meno tasse per tutti. Non ha funzionato.
L’operazione, nonostante l’umiliante decisione di ridursi ad una imprevista dilazione, porta complessivamente nelle casse del governo 1,6 miliardi, come contropartita non ad uno, ma a due anni di imposte. Certamente meno delle cifre che circolavano riservatamente nelle stanze del governo, anche se non sono mai state rese pubbliche. Il punto da mettere in chiaro subito è che quei soldi sono “pochi, maledetti e subito”: un po’ di liquidità in più, qui ed ora, ma non di reddito aggiuntivo. Escludendo la remota ipotesi che qualche evasore totale abbia deciso di saltare sul carro del concordato, rinunciando ad una comoda vita da latitante, infatti, sapremo soltanto fra un paio d’anni se gli evasori parziali che hanno aderito al concordato (ricordiamo che, secondo dati ufficiali, il 70 per cento delle partite Iva evade) non avrebbero pagato, in realtà, di più, pur continuando ad evadere un po’, in base allo sviluppo dell’economia da qui al 2027. Insomma, paradossalmente, il concordato potrebbe al limite portare, anche a legislazione invariata, ad una perdita di gettito. Gli stessi commercialisti non hanno mai nascosto che aderire al concordato conveniva, perché si poteva decidere di accettare la proposta solo una volta accertato di poter pagare di meno. Non si è, insomma, scovato nessun tesoro degli evasori.
Ma il numero che dovrebbe spaventare il governo non è quello di un deludente gettito. E’, piuttosto, il numero di quelli che hanno aderito. L’operazione, infatti, ha complessivamente coinvolto meno di 600 mila contribuenti su un totale di 4,5 milioni di imprese, professionisti e autonomi, potenzialmente interessati al concordato: ovvero il 13 per cento. Un contribuente su 8. Gli altri sette hanno fatto finta di non sentire, chiudendo la porta in faccia alle lusinghe del fisco amico. Legittimando il dubbio che, nella politica fiscale, il numero che conta davvero sia un altro: il risicato 4,2 per cento di contribuenti potenzialmente da monitorare ed effettivamente sottoposto a controlli. Il fisco semplice – parrebbe – non è il fisco fesso.
Il fisco italiano, invece, non sembra far paura a nessuno. Lo dimostra l’inverosimile ciliegina posta – inutilmente – dalla maggioranza di governo sulla torta del concordato. Un regalo ex post. Un emendamento varato in Parlamento consente, infatti, a chi abbia aderito al concordato di chiudere qualsiasi ipotetica partita con il fisco, non solo per il futuro, ma anche per il passato, grazie ad una supersanatoria. Versi mille euro per ognuno dei cinque anni fra il 2018 e il 2022 (e il 2018 è l’anno più lontano per cui ancora si potrebbero muovere contestazioni) e nessuno verrà mai a mettere il naso nelle tue carte. Fate la somma: quasi dieci anni di imposte regolati, in tutto, con una mancia di 5 mila euro e due anni di aliquote a prezzi stracciati. Non è bastato neanche questo per far decollare il fisco amico.
Maurizio Ricci