Il 3 aprile del 1973, l’Unità uscì con un titolo a tutta pagina: “Il grande successo dei metalmeccanici, nuova spinta al rinnovamento del Paese”. Sotto il titolo, un articolo in cui Bruno Ugolini illustrava i contenuti dell’accordo appena siglato tra Flm, la federazione unitaria dei sindacati della categoria, e Federmeccanica, l’associazione delle imprese del settore associate a Confindustria.
Questa prima pagina è stata ricordata martedì scorso da Ilaria Romeo, responsabile dell’Archivio storico della Cgil, nel corso del convegno intitolato “Dalle 150 ore al diritto universale alla formazione”. Una riflessione a più voci che, su iniziativa della Fiom-Cgil e della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, è stata tenuta a Roma presso la sede nazionale della stessa Cgil.
Perché, dunque, fare proprio adesso un convegno sulle cosiddette 150 ore, esperienza nobile, ma anche un po’ dimenticata, della storia sindacale italiana?
Come si è potuto capire seguendo l’incontro (peraltro riascoltabile su sito cigiellino collettiva.it), i motivi di questa rievocazione sono tanti, e non solo di carattere storico.
Il primo motivo, e fin qui siamo nel sempre importante incrocio fra storia e memoria, sta appunto nel fatto che da quel memorabile aprile sono passati cinquanta anni, o poco più. Dopo la definizione e la condivisione, immancabilmente notturne, della bozza di accordo, il Contratto vero e proprio fu firmato il 19 aprile del 1973. E gli anniversari, si sa, si sposano bene con le cifre tonde.
Anniversari a parte, va detto che tra i motivi che hanno reso storica quell’intesa c’è, innanzitutto, l’esordio di due nuovi soggetti contrattuali.
Da un lato, la Flm, ovvero l’allora neonata Federazione lavoratori metalmeccanici, cioè la sigla unitaria che riuniva, al tavolo delle trattative, le tre organizzazioni confederali dei metalmeccanici: Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil. Sigla gloriosa, sindacalmente parlando, che nacque nel 1972, ma non resse alle divisioni ingenerate dal cosiddetto accordo di San Valentino e non superò, quindi, il febbraio del 1984.
Dall’altra parte del tavolo, c’era la giovanissima Federmeccanica. Giovanissima perché, fino al rinnovo contrattuale del gennaio 1970, le imprese metalmeccaniche venivano rappresentate dalla Confindustria. E fu solo dopo quell’accordo, frutto delle lotte sindacali dell’Autunno Caldo del 1969, che tali imprese decisero, nel 1971, di dotarsi di un più diretto strumento di rappresentanza collettiva.
Ma, terzo motivo, ciò che più importa sono i contenuti dell’intesa. Ora è appena il caso di ricordare che il rinnovo contrattuale del gennaio 1970 aveva segnato un vero e proprio punto di svolta nella storia delle relazioni sindacali nel nostro Paese. Da quel momento in poi, le fabbriche metalmeccaniche non furono più domicili privati preclusi ai sindacalisti. La conquista del diritto di assemblea all’interno del luogo e dell’orario di lavoro, poi esteso a tutti i settori dal cosiddetto Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 21 maggio 1970, n. 300), costituì forse, in quel rinnovo, il fatto dotato di maggiore valore simbolico. Grande peso, non solo sindacale, ma anche sociale nel senso più ampio del termine, ebbero però anche le conquiste ottenute dai metalmeccanici in materia di salari, con aumenti significativi, e, forse ancor più, di orari di lavoro, con la riduzione a 40 ore settimanali.
Tre anni dopo, il successivo rinnovo contrattuale si segnalò per nuove conquiste sindacali caratterizzate forse più in senso qualitativo che quantitativo. Stiamo parlando delle 150 ore per il diritto allo studio e dell’inquadramento unico operai-impiegati. E diciamo subito che il maggior merito del convegno del 7 novembre, anche se il suo titolo era riferito esplicitamente solo alle questioni formative, è consistito proprio nell’intento di tenere insieme i temi della formazione con quelli dell’inquadramento.
Infatti, nella piattaforma elaborata dalla Flm, la federazione unitaria guidata, allora, da Bruno Trentin (Fiom), Pierre Carniti (Fim), e Giorgio Benvenuto (Uilm), i due temi rivendicativi facevano parte di un unico progetto sindacale volto a rompere il muro normativo, ma anche culturale, che teneva separati i lavoratori degli uffici da quelli delle officine. E ciò per unificare sia sindacalmente che socialmente tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica.
Ovviamente, come è emerso dal convegno, oggi può essere difficile, specie per i più giovani, avere chiaro quanto fosse diversa l’Italia di cinquant’anni fa da quella di oggi. Ma per fare uno sforzo in questa direzione basterà pensare al fatto che un uomo che aveva 40 anni di età nel 1973 era nato nel 1933 e, in teoria, aveva quindi finito le scuole elementari nel 1943, ovvero in piena Seconda Guerra mondiale, nonché in un Paese ancora significativamente rurale.
Morale della favola: nel 1973 nelle fabbriche metalmeccaniche c’erano ancora molti lavoratori che non avevano conseguito, non si dice, un titolo di studio superiore, ma neppure la licenza di terza media.
Ecco allora l’idea: ottenere, nel nuovo contratto nazionale, il diritto a poter usufruire, nel triennio, di 150 ore retribuite di diritto allo studio. Laddove con “diritto allo studio” si intendeva non formazione professionale, né formazione sindacale, ma proprio lo studio scolastico. Per poter conseguire l’agognata “licenza media” o, addirittura, per poter frequentare anche corsi superiori, magari in una sede universitaria.
Dalla cronaca sindacale dell’epoca ci è quindi arrivato uno scambio di battute, forse leggendario, tra uno dei massimi dirigenti della delegazione padronale (forse Walter Mandelli) e una delle sue controparti sindacali (forse Franco Bentivogli, della Fim-Cisl). Scambio di battute che è stato rievocato, in apertura del convegno, da Tommaso Cerusici, dell’Archivio storico Fiom. Mandelli avrebbe dunque chiesto ai sindacalisti che cosa avrebbero poi fatto, i lavoratori, con “queste 150 ore”. Soggiungendo: “Forse le useranno per studiare il clavicembalo”? Al che Bentivogli avrebbe risposto: “E perché no?”.
Battute a parte, il disegno sindacale era quello di aprire un percorso, contrattualmente fondato, che consentisse a migliaia di lavoratori, da un lato, di conseguire un titolo di studio riconosciuto e capace quindi, di per sé, di farli salire lungo la scala delle qualifiche; e, dall’altro lato, di essere sottratti alla condizione discriminante in cui si trovavano i molti che “non avevano potuto studiare”.
Un disegno di emancipazione, quindi, che faceva tutt’uno con l’idea di rompere la separazione formale fra operai e impiegati, creando un inquadramento professionale unico valido per l’insieme composto da tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori metalmeccanici, indipendentemente dal fatto che si trattasse di tute blu o di colletti bianchi.
Sono passati cinquant’anni e la società italiana è molto cambiata, così come sono cambiati i luoghi di lavoro. Ma i più recenti rinnovi del contratto dei metalmeccanici ci dicono che i temi dell’apprendimento e dell’inquadramento professionale continuano a inseguirsi e ad avere grande importanza per le relazioni sindacali all’interno di quella che resta la principale categoria dell’industria italiana.
Nel 2016, con quello che può essere considerato come un altro contratto di svolta nella lunga storia contrattuale dei metalmeccanici, è stata conquistata la formazione continua come diritto soggettivo delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici. Una formazione volta a aggiornare professionalità che devono confrontarsi con tecnologie in continua evoluzione. E ciò nell’interesse non solo dei lavoratori ma, a pensarci bene, anche delle imprese.
Nel 2021, è stato definito un nuovo assetto dell’inquadramento professionale. Che resta unico, ma viene aggiornato prendendo in considerazione le figure professionali che popolano oggi le imprese metalmeccaniche. Oggi, ovvero in un mondo in cui la diffusione sempre crescente delle tecnologie digitali ridisegna i contenuti reali di molte mansioni lavorative o ne crea addirittura di nuove, mentre ne cancella altre, ormai obsolete.
Adesso, nella categoria, si è già cominciato a ragionare sui contenuti di una nuova piattaforma rivendicativa. L’anno prossimo, il 2024, è infatti quello in cui si dovrà costruire un accordo per rinnovare il contratto a tre anni dal più recente, precedente rinnovo. E dall’intervento di Mirco Rota, responsabile dell’Ufficio sindacale, come dalle conclusioni di Michele De Palma, Segretario generale, si è compreso come nella Fiom stia maturando la volontà di costruire un contratto grazie al quale, da un lato, il diritto soggettivo alla formazione continua venga sempre più praticato, mentre, dall’altro lato, un nuovo strumento realizzato assieme a Federmeccanica quale MetApprendo, di per sé finalizzato alla registrazione delle attività di formazione, possa essere utilizzato nella contrattazione di secondo livello per spingere le aziende a impegnarsi nello sviluppo delle attività formative. E ciò specie per ciò che riguarda le molte aziende di minori dimensioni, ovvero quelle in cui è stato fin qui più difficile innescare le nuove attività formative.
Per De Palma, il sindacato dovrà dunque impegnarsi per tutelare l’effettivo godimento, da parte dei lavoratori, del diritto soggettivo alla formazione continua. “Ciò che serve – ha detto – è una gestione collettiva di tale diritto soggettivo”.
@Fernando_Liuzzi