di Fernando Liuzzi
Com’era forse prevedibile, al Congresso della Fiom, svoltosi a Rimini dal 10 al 12 aprile, l’ipotizzato show down tra i leaders variamente duellanti della Fiom, Maurizio Landini, e della Cgil, Susanna Camuso, non c’è stato. Alla fine delle tre giornate, molti se ne sono andati con l’idea che l’eventuale scontro, o il meno probabile incontro, siano stati rinviati al 17° Congresso Cgil, messo in calendario per i primi di maggio.
Ma cosa c’è alla base di questa reiterata tensione, per non dire contrapposizione, tra la maggiore confederazione sindacale italiana e la sua federazione dei metalmeccanici? E quale si può immaginare sia l’evoluzione di un rapporto che appare come sempre più contrastato?
Per rispondere a queste domande è sicuramente necessario avere in mente le linee fondamentali di una storia che è ormai lunga più di un secolo. Ma, soprattutto, è utile cogliere alcuni aspetti del modo in cui il rapporto tra Fiom e Cgil si è evoluto in quello che, in termini politici, si può definire come il ventennio berlusconiano.
A monte di questo ventennio, in termini sindacali, c’e’ il cosiddetto Protocollo del 23 luglio 1993. Un accordo triangolare tra Governo, Confindustria e sindacati di tipo concertativo che, da un lato, pone le basi di una possibile politica dei redditi, concepita quale premessa alla partecipazione dell’Italia alla fondazione dell’euro; mentre, dall’altro, fonda un nuovo assetto delle relazioni industriali.
In termini contrattuali, l’accordo del 23 luglio, che introduce l’uso dell’inflazione programmata quale strumento di politica economica, è anche una risposta all’eutanasia della scala mobile, definitivamente soppressa nel luglio ’92 da un precedente accordo triangolare che, in Cgil, ha provocato gravi sofferenze.
All’epoca, la Cgil è guidata da Bruno Trentin, che è ormai vicino ai 70 anni ed è, comunque, un uomo di un’altra stagione. L’anno dopo, nel 1994, Trentin lascia l’incarico di segretario generale della Cgil. Prima di andare via si è però preoccupato di disegnare un nuovo assetto interno della confederazione. Dalla rifondazione della Cgil unitaria, avvenuta col Patto di Roma nel 1944, e cioè in un quadro pienamente resistenziale, e fino all’inizio degli anni Novanta, le correnti politico-partitiche hanno avuto un ruolo via, via cangiante, ma pur sempre significativo, nella regolazione della vita interna della Cgil e, soprattutto, nella formazione dei suoi gruppi dirigenti. E ciò sia nella prima fase, quella che va dal Patto unitario del ‘44 alla scissione del 1948, con cui fuoriescono dalla Confederazione democristiani (Dc), socialdemocratici (Psdi) e la maggioranza dei repubblicani (Pri). Sia nella seconda fase, che va dal ‘48 agli anni ’60-70, col tentativo di ricostruire un clima unitario con le confederazioni nate dalla scissione (Cisl e Uil) grazie, anche, all’introduzione del principio dell’incompatibilità fra incarichi sindacali e cariche elettive di tipo amministrativo o politico. Sia nella terza fase, che vede un’attenuazione, ma non la scomparsa, della presa dei partiti politici sulle correnti sindacali che, non per caso, assumono il nuovo nome, percepito come meno impegnativo, di “componenti”.
Una serie di fattori porta però, come si sa, all’estinzione sostanziale della cosiddetta Prima Repubblica, cioè di un assetto politico basato sui Partiti che avevano guidato la Resistenza. Anche in Cgil c’è dunque bisogno di un nuovo assetto che non può più essere basato su un patto informale di convivenza tra le componenti politico-partitiche (comunisti, socialisti, terza componente). Trentin immagina quindi un nuovo patto costituzionale in cui tutti si riconoscono nel medesimo Programma fondamentale, che è la base comune dell’intera Cgil, salvo poi a poter eventualmente e liberamente confliggere nei Congressi, a partire da documenti politici anche contrapposti.
Ma Trentin non si limita a disegnare il nuovo assetto costituzionale – nel senso della sua Costituzione interna – della Cgil; opera anche per selezionare gli uomini in carne ed ossa che dovranno dare vita a tale nuovo assetto. Per l’incarico di Segretario generale della Cgil il candidato c’è già: è il lombardo Sergio Cofferati, che non è solo il segretario confederale responsabile dell’Ufficio industria, ma viene dai chimici, cioè dalla categoria che, con le sue scelte contrattuali, ha anticipato, in qualche modo, il mutamento di paradigma nel rapporto fra salari e inflazione che ha consentito di sostituire, sia pure faticosamente, la scala mobile con l’inflazione programmata. E i chimici, si sa, sono una categoria sindacalmente moderata. Per equilibrare questa scelta, Trentin porta alla guida della Fiom un suo ex-segretario nazionale, il bolognese Claudio Sabattini, che della Fiom, negli anni Settanta e fino alla sconfitta patita dai sindacati alla Fiat nel 1980, ha rappresentato l’anima più radicale.
Ora sia Cofferati che Sabattini sono stati iscritti al Pci, ma, nel nuovo assetto trentiniano ciò conta poco. Quel che conta è che da Cofferati ci si attende che sia un credibile riformista, mentre Sabattini è chiamato a riequilibrare la prevedibile moderazione del primo non con un massimalismo, che sarebbe troppo rozzo per la sua complessa formazione culturale, ma con una maggiore sensibilità all’autonomia rivendicativa di ciò che resta del sindacato di classe.
A ciò si aggiunge una regola che non è un dettaglio. I Congessi vanno fatti ogni 4 anni e nessuno può mantenere l’incarico di segretario generale per più di 2 mandati.
Nel 1994, dunque, Cofferati diventa segretario generale della Cgil e Sabattini segretario generale della Fiom. Dopo 8 anni, nel 2002, il primo sarà sostituito da Guglielmo Epifani, già braccio destro di Cofferati; il secondo da Gianni Rinaldini, reggiano nonché allievo e seguace di Sabattini. Dopo altri 8 anni, nel 2010, Epifani sarà sostituito dalla milanese Susanna Camusso che, come lui, è stata iscritta al Psi (anche se su posizioni più di sinistra), ma, sindacalmente, si è formata nella Fiom; dove, peraltro, è stata osteggiata da Sabattini. Rinaldini, invece, passa il testimone a Maurizio Landini, anch’egli nativo della provincia di Reggio Emilia e iscrivibile nella dinastia dei sabattiniani emiliani.
Tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta, Trentin si propose, nei fatti, di ridare alla Fiom quel ruolo che aveva già avuto, prima del Fascismo, sotto la guida di Bruno Buozzi: il ruolo dell’avanguardia della Cgil, della federazione di categoria che si pone alla testa del movimento sindacale perché affronta per prima terreni nuovi nella contrattazione e, a partire da essa, nell’iniziativa politico-sindacale della classe operaia. Sabattini invece, a partire dal 1994, assegna alla Fiom il ruolo, più circoscritto, di ala sinistra della stessa Cgil.
Ora, che il sindacato dei metalmeccanici sia collocato su posizioni più radicali di quelle tipiche dell’insieme del movimento sindacale, è un dato quasi fisiologico che dipende da una somma di fattori economici e produttivi, sociologicamente rilevabili, nonché un fenomeno riscontrabile in diverse epoche e in diversi paesi. E’, insomma, un fatto in cui non c’è nulla di strano. Il problema è un altro.
La Fiom di Bruno Buozzi, prima dell’avvento della tirannia mussoliniana, era praticamente l’unico sindacato dei metalmeccanici. La dialettica tra Fiom e Cgil non era quindi il contrastato rapporto fra due organizzazioni, ma la naturale dialettica fra la categoria più militante e l’insieme della Confederazione.
La Fiom di Bruno Trentin agisce in una situazione formalmente molto diversa ma, per l’aspetto che ci interessa, relativamente simile. Dopo il ventennio fascista e dopo la scissione della Cgil unitaria, avvenuta nel 1948, anche nell’industria si crea la compresenza di più organizzazioni sindacali tra loro competitive. Tuttavia, a partire dalle lotte combattute dai metalmeccanici nel 1959 in nome dello slogan “Uniti si vince”, nel settore si crea una nuova situazione di unità d’azione fra i maggiori sindacati. Nel periodo in cui Trentin è alla testa della Fiom, tra gli anni ’60 e il 1977, la stessa Fiom è quindi parte organica di un fronte unitario, quello formato con Fim-Cisl e Uilm-Uil. Non è la Fiom, intesa come una singola organizzazione, ad essere il fulcro della sinistra sindacale, ma è l’intera categoria dei metalmeccanici ad assolvere, sia sul piano contrattuale che su quello organizzativo, a una funzione innovativa che assume come interlocutore l’intero mondo del sindacalismo confederale.
Quando, nel 1994, Sabattini prende la guida della Fiom, la situazione dei rapporti con Fim e Uilm non è certo brillante, ma neppure pessima. Non c’è più il clima unitario, dissoltosi nel 1984 dopo il primo attacco portato alla scala mobile dal Governo Craxi, ma una prassi di unità d’azione è stata recuperata, mentre il Protocollo del 23 luglio dovrebbe poter offrire una base condivisa alle politiche rivendicative. Lungo gli anni Novanta, le cose procedono fra alti e bassi, mentre le differenze strategiche tra Fiom, da una parte, e Fim e Uilm, dall’altra, sembrano appianate. Riemergono, però, nell’autunno 2000, in sede di preparazione della piattaforma per il secondo biennio salariale del contratto firmato nel 1999, e riesplodono nel corso della successiva trattativa. Nel 2001 si giunge a un accordo separato sul contratto nazionale, primo di una lunga serie che sarà provvisoriamente interrotta solo a inizio 2008, grazie anche al lavoro, discreto ma decisivo, del ministro del Lavoro, l’ex fiommino riformista Cesare Damiano.
E’, comunque, a partire dalla rottura del 2001 che si crea il paradigma tutt’ora dominante nella categoria. La dissoluzione del vincolo unitario crea nei gruppi dirigenti dei tre sindacati una sensazione di euforia, come se tale dissoluzione rendesse loro finalmente possibile di fare non si sa bene cosa. Ma non è così. Da un lato, la Fiom si illude di rappresentare l’intera categoria dei metalmeccanici ma, mentre alza sempre più la voce, assiste impotente allo scemare del suo effettivo potere contrattuale, sul piano nazionale come nei luoghi di lavoro. Dall’altro, Fim e Uilm compiono l’errore opposto, perché l’esclusione della Fiom dai tavoli negoziali, proseguita senza consapevolezza delle sue conseguenze, finisce per indebolire la loro capacità di ottenere risultati concreti.
E’ in questa situazione che si crea il rapporto perverso tutt’ora esistente tra la Fiom e il resto della Cgil. Con la federazione dei metalmeccanici che accusa reiteratamente la confederazione di non fare abbastanza per sostenere la stessa Fiom sia nei confronti del sistema delle imprese, e quindi di Federmeccanica, sia nei confronti di una Cisl e di una Uil che non richiamano Fim e Uilm ai propri doveri di correttezza nei rapporti interni alla categoria.
Un rapporto perverso che dà luogo anche a uno strano dibattito su quelli che potremmo chiamare come diritti di primogenitura incrociati. Da un lato Sabattini che – via, via che accentuava la polemica con la Confederazione – rivendicava con orgoglio il fatto che la Fiom, nata nel 1901, fosse stata, nel 1906, tra i fondatori della Confederazione del lavoro. Cercando così di smentire qualsiasi ipotesi di voler fondare una quarta confederazione o, addirittura, un partito del lavoro. E ciò perché “Noi siamo la Cgil”. Dall’altro lato Camusso che, anche recentemente, ha ricordato che la Cgil non è una confederazione di sindacati, ma una confederazione di lavoratori. I quali, quindi, si iscrivono alla Cgil, non alla Fiom. E ciò perché le radici della Confederazione affondano nell’antica esperienza delle Camere del lavoro che, già dalla fine dell’800, si proponevano di raccogliere e rappresentare tutto il mondo del lavoro, ovvero occupati e disoccupati. E perché le maggiori Camere del lavoro parteciparono alla fondazione della Confederazione sullo stesso piano delle prime federazioni di categoria.
Il 2009 è stato l’annus horribilis della Cgil. Sotto la prepotente spinta del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, il più capace e il più efficace dei ministri degli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi, Cisl, Uil, Confindustria e Governo si accordano per dare vita a un nuovo sistema contrattuale che taglia fuori la Cgil. Per conseguenza, Fim e Uilm stracciano il contratto unitario del 2008 e danno vita, a partire da ottobre, a una nuova serie di accordi separati nella categoria. All’opposto, dopo essere arrivata alla guida della Cgil, Susanna Camusso inizia un lavoro caparbio, e allo stesso tempo discreto, per ricostruire un rapporto non solo con le altre confederazioni sindacali, ma anche con la Confindustria. E ciò a partire da una ridefinizione delle regole relative alla rappresentanza. Tre sono le tappe di questo lento lavorio: 28 giugno 2011, 31 maggio 2013, 10 gennaio 2014.
Parallelamente a questa azione sul versante esterno, Camusso avvia anche un paziente lavoro di ricucitura dei rapporti interni alla Cgil, e propone un documento unitario per il Congresso del 2014. Landini, in un primo momento, aderisce alla proposta e sottoscrive il documento Camusso. Ma dopo l’intesa del 10 gennaio, nonostante il fatto che, potenzialmente, la Fiom sia la federazione di categoria che può trarre da essa un maggior vantaggio, Landini riapre i giochi e schiera la maggioranza Fiom contro l’intesa stessa.
Morale della favola. Senza una sponda unitaria nella categoria, senza un’attività negoziale diffusa che riesca ad andare oltre alla contrattazione delle conseguenze occupazionali della crisi, senza un’attività di studio sui mutamenti in corso nell’industria, e senza un dibattito strategico interno sulle prospettive stesse del sindacato industriale in un mondo sempre più globalizzato, la Fiom rischia di cambiare natura. E’ sempre meno un sindacato industriale, ma non è neppure un partito o un’associazione culturale. E’ un soggetto di tipo nuovo, difficile da definire, di forte identità e di forte impatto mediatico; un soggetto che attira consensi in una sinistra delusa e diffusa, più che nella categoria fatta da quelle donne e da quegli uomini che, per cinque giorni alla settimana, impiegano parecchie ore del proprio tempo lavorando per un’impresa metalmeccanica.
Difficile credere che, nel gruppo dirigente della maggioranza della Fiom, stia prendendo forma un consapevole progetto di separazione dalla Cgil. Va però detto che, lasciando le cose come sono oggi, la rotta del vascello Fiom sembra destinata ad allontanarsi sempre più da quella della flotta Cgil. Paradossalmente, affinché queste rotte tornino ad avvicinarsi, sarà necessario che nella Fiom si riapra non tanto un dibattito sui rapporti con la confederazione, quanto un dibattito sui rapporti unitari all’interno della categoria. Un dibattito che renda la Fiom capace di tornare a capire perché mai, nel 1959, alle soglie del boom economico, nacque quello strano slogan che abbiamo sopra ricordato: “Uniti si vince”.
Fernando Liuzzi