Stupisce la tenacia con cui il ministro della Sanita’ Beatrice Lorenzin si ingegna per cancellare molte conquiste delle donne nel secolo scorso: dallo svuotamento della Legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza, fino all’ultima perla estiva, il “Fertility day”. E qui colpiscono due cose: la prima riguarda il contenuto osceno della campagna del ministero della Salute, a metà tra il nazionalismo e il sessismo, con un vago riferimento al Ventennio. La seconda riguarda il dissenso, e la sua gestione, ai tempi dei social, che accende un faro spietato sulla fragilità e l’inadeguatezza di questa classe politica. I feroci attacchi in rete hanno fatto addirittura retrocedere il ministero, che si è precipitato a oscurare la campagna e il sito. Non c’è stato bisogno di imponenti manifestazioni di piazza, o di arzigogolate forme di protesta faticosamente organizzate: sono bastati alcuni tweet ben assestati. E’ caduto miseramente, dunque, anche un totem caro ai pubblicitari, che molti politici negli ultimi 20 anni hanno fatto proprio con smodata e compiaciuta esagerazione: il “basta che se ne parli”.
Ma soprattutto, con un colpo di spugna la ministra ha tentato di cancellare decenni di battaglie, costringendo le donne a difendere ancora una volta il diritto all’autodeterminazione, che non prevede obblighi riproduttivi per ”amor di patria”.
E’ chiaro che non si tratta di un problema di comunicazione come Beatrice Lorenzin si è precipitata a definire il flop, dicendosi pronta a far ”rimodulare le immagini vissute come un’offesa”. E pazienza se è costata fin qui 150 mila euro dei contribuenti. La ministra, con una buona dose di arroganza, ha aggiunto che l’obiettivo non era offendere, ma ”provocare”. Be’, in questo c’è perfettamente riuscita, a partire dallo slogan ”Genitori giovani: il modo migliore per essere creativi”.
Ignorando totalmente le difficoltà economiche indotte dalla crisi, il nodo tutt’ora irrisolto della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, la mancanza di asili nido, il part-time imposto, l’estensione dei congedi di paternità, etc. etc.
Quello che va rivisto, non riguarda il lavoro dei pubblicitari, ma l’intero impianto del ”Piano nazionale per la fertilità”, spaventosamente impreciso nell’analisi e inadeguato nel linguaggio. Nella prima pagina del ‘’Piano’’ si legge che si vuole operare un capovolgimento della mentalità corrente, rileggendo la fertilità come bisogno essenziale, non solo della coppia ma dell’intera società, e promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della maternità”, seguito da un ”recuperare il valore sociale della maternità”. Frasi prive di senso, anni 50, scioccamente ideologiche. Dove ci si continua a rivolgere alla donna, spronandola a non far scadere il tempo biologico. Non a caso la parola “paternità” nel lungo documento (137 pagine) appare soltanto 9 volte, contro le 109 volte della parola ”donna” e le 28 ”uomo”. Alla faccia del concetto di genitorialità che con fatica da anni si tenta di far passare.
Dallo Stato ci si aspetterebbe non una ”rieducazione” non richiesta alla maternità, ma l’incentivo e la promozione di politiche economiche e sociali per chi decide di avere un figlio, ed e’ invece costretto a rimandare o a rinunciare per ragioni, appunto, economiche e sociali. Sempre tenendo a mente che i figli si fanno, oppure no, per scelte di vita.