È toccato anche sentire Matteo Salvini opporsi al debito comune europeo, perché, a sentir lui, potrebbe costringere la ora ricca Italia a finanziare i poveri tedeschi. Invece, meglio non dimenticare che, da sempre, l’inflazione colpisce la gente e aiuta i governi. E, allora, le celebrazioni che rimbalzano da un lato all’altro del governo sulle magnifiche sorti dell’economia all’alba del 2025 – più Pil, più esportazioni, meno debito, più occupazione – suonano a vuoto. Potrebbe andare peggio, ma non va affatto bene. I dati che Giorgia Meloni accarezza sono, in buona misura, un miraggio statistico, che potrebbe rovesciarsi, a breve, nel suo contrario.
Il deficit pubblico pesa meno del previsto rispetto al Pil? Certo. Peccato sia solo un effetto contabile. Il Pil che si considera è quello nominale, gonfiato dal boom dell’inflazione. Inevitabilmente, il disavanzo, anche se aumentato in cifra assoluta, appare ridotto, rispetto al superPil. È ancora più vero per il parametro più importante, agli occhi internazionali, della finanza pubblica: il debito. Anche qui, rispetto al Pil gonfiato dai prezzi, il debito pubblico appare ridimensionato: storicamente, infatti, l’inflazione è lo strumento più facile per abbassare il debito. Anzi, se non ci fosse stata la botta dei 170 miliardi del superbonus, osserva Giuseppe Coco, docente a Bari, avremmo apparentemente raddrizzato la barca. Ma non c’è da scommettere che duri. Per il debito, ancor più che per il disavanzo, il boom dell’inflazione ha avuto un doppio effetto. Ha gonfiato i numeri (solo quelli) del Pil, mentre il debito pubblico continuavamo a pagarlo ai tassi vicini allo zero del periodo pre-inflazione. Adesso, dobbiamo aspettarci un Pil che, anche a prezzi correnti, cresce meno e tassi da pagare sui Btp più alti.
Ma l’inflazione ha regalato al governo molto di più. Perché la spesa pubblica non è aumentata al ritmo dell’inflazione. Al contrario: in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, gli stipendi pubblici (statali, insegnanti, poliziotti) sono diminuiti del 12 per cento. Contemporaneamente, invece, le entrate non diminuivano, anzi aumentavano grazie al fiscal drag: stesse aliquote per stipendi saliti solo in termini nominali. Anche le spese, come quelle per la sanità, sono aumentate, negli ultimi due anni, meno dell’inflazione.
Insomma, osserva Coco, i buoni numeri del governo, grazie all’inflazione, li hanno pagati i dipendenti pubblici, i servizi pubblici, i possessori di Btp, bloccati su rendimenti travolti dalla corsa dell’inflazione. Ma lo stesso boom dei prezzi è un fattore fondamentale anche dei segnali positivi che vengono dall’apparato produttivo e, pure qui, una spia della sua debolezza.
Nel settore privato, i salari, fra il 2021 e il 2024, sono scesi, in termini reali, dell’11 per cento. Per le esportazioni italiane, una botta di adrenalina che, a costi del lavoro così ridotti, ha visto rilanciare la competitività dei suoi prezzi. Sembra, ma non è un buon segnale. Perché ripropone una competitività dell’industria italiana alla vecchia maniera, fatta non di innovazione, ma di costi del lavoro compressi. “Prosegue – dice Coco – la nostra trasformazione in economia arretrata, a bassa produttività, bassi salari”.
Perché quello che manca, nel menu di apparenti buone notizie, è quella che conta di più: la produttività, eterna palla al piede dell’economia italiana, incapace di aumentarla, al contrario dei nostri concorrenti, dagli anni ’90. E, allora, anche l’aumento di occupazione, la più consolante delle notizie di questi mesi, scricchiola. Fra il secondo trimestre del 2021 e il secondo trimestre del 2024, il tasso di occupazione è cresciuto dal 58 per cento al record del 62 per cento. Ma, nonostante tutta questa gente in più al lavoro, il Pil, al netto dell’inflazione, è cresciuto proporzionalmente meno, segno che la produttività non è cresciuta. Fermate lo champagne.
Maurizio Ricci