Federmeccanica ha presentato ieri, a Roma, i risultati dell’edizione n. 162 della sua indagine trimestrale sulla congiuntura dell’industria metalmeccanica nel nostro Paese. Per certi aspetti, la buona notizia è che, in una situazione economica mondiale dominata dall’incertezza, sia ancora possibile sfornare, a cadenza regolare, indagini come quella che Federmeccanica produce, meritoriamente, da più di 40 anni. Un’indagine che, come è noto, mette insieme ed esamina, con un proprio filo logico, sia dati macroeconomici già resi noti da fonti ufficiali quali Istat e Inps, sia dati originali frutto di sondaggi effettuati dalla stessa Federmeccanica in un campione significativo di imprese metalmeccaniche italiane.
I dati non mancano, dunque. La cattiva notizia, però, è che ci troviamo in una fase in cui appare sempre più difficile ordinare questi dati in una prospettiva che sia capace di indicarne un senso.
Da dove veniamo è abbastanza noto. Gli affari andavano, come dicono nei Paesi di lingua inglese, as usual, quando, all’inizio del 2020, è esplosa, a livello globale, la pandemia provocata da un agente patogeno fino ad allora sconosciuto e poi denominato Covid-19. Per bloccare la diffusione rapidissima del morbo, fu ideato, e poi ampiamente attuato, il lockdown, ovvero la chiusura di molti luoghi di aggregazione, a partire da molti e diversi luoghi di lavoro. Chiusure temporanee, certo, ma ampie e diffuse.
Ne seguì un crollo fisico della produzione, e quindi anche dell’offerta e della domanda sia di prodotti finiti, che di prodotti e servizi intermedi.
Questo nel 2020, e specie nella sua prima parte. Poi il diffondersi di strumenti preventivi più sofisticati e più duttili delle semplici chiusure, dall’uso diffuso di mascherine e di gel disinfettanti, alla massiccia somministrazione di specifici vaccini, ha reso possibile, nella seconda metà del 2020 e lungo la prima parte del 2021, il diffondersi di una ripresa dell’attività produttiva di beni e servizi.
Questa ripresa è stata però più disordinata e confusa di quanto non sarebbe stato auspicabile. E ciò anche perché fasi di ripresa della pandemia si sono presentate in momenti e luoghi diversi, rendendo il tutto più complesso. Fatto sta che – via, via che si manifestava una certa ripresa della vita economica – si è assistito al presentarsi, in termini fra loro contemporanei, di una serie di fattori di perturbazione di questa stessa ripresa: una repentina crescita della domanda mondiale con conseguenti difficoltà nella prenotabilità dei mezzi di trasporto marittimi; e ciò con la duplice e successiva conseguenza di allungamenti nei tempi di attesa e di crescita dei noli. E poi ancora: rarefazione di componenti quali i microchip, ovvero di componenti sempre più essenziali per un numero sempre crescente di prodotti dell’industria manifatturiera; rarefazione e successiva crescita nei prezzi di varie materie prime, dal legno a diversi minerali; crescita dei prezzi delle materie prime energetiche. E infine, il ripresentarsi sulla scena economica di un fenomeno quasi dimenticato: l’inflazione. Fenomeno dovuto, in parte, a fattori interni alle economie più sviluppate e, per altra parte, a ciò che il Governatore della Banca d’Italia, Visco, ha definito, nelle sue Considerazioni finali di fine maggio, come il “rincaro dei prodotti energetici importati”.
E’ con questi problemi che si arriva a fine 2021-inizio 2022. Ma ecco che il 24 febbraio la Russia di Putin avvia l’invasione dell’Ucraina.
Tralasciamo, in questa sede, i drammatici aspetti umani, politici e, come oggi si usa dire, geostrategici di questa guerra che è in corso, ormai, da tre mesi e mezzo. Per concentrarci solo sulle conseguenze economiche del ritorno del fenomeno bellico sulla scena europea.
La prima conseguenza, di impatto globale, è che, all’elenco delle materie prime rarefatte e rincarate vanno ad aggiungersi prodotti agroalimentari decisivi: grano, mais e olio di semi. La seconda è che alle incertezze dovute al percorso disordinato di una ripresa che, entro certi limiti, possiamo definire come post-pandemica, si aggiunge un ulteriore fattore di incertezza: quanto durerà la guerra? E quali conseguenze avrà sulle relazioni economiche internazionali? Una domanda, quest’ultima, molto importante per la nostra industria metalmeccanica, ovvero per un comparto produttivo che, da un lato, dipende dalle importazioni per ciò che riguarda materie prime decisive, fra cui quelle energetiche, e che, dall’altro, è particolarmente vocato alle esportazioni.
E’ in questo contesto che vanno collocati i dati e le analisi offerti ieri da Federmeccanica. Che, per dare subito l’idea di fondo cui si impronta quest’edizione della sua indagine congiunturale, ovvero quella di un rallentamento della ripresa, è partita da un recente lavoro del Fondo Monetario Internazionale. Il quale, nell’aggiornamento di aprile del suo World Economic Outlook (Prospettive economiche mondiali), ha “tagliato le precedenti stime, prevedendo una crescita del Pil mondiale del 3,6% sia per il 2022, sia per il 2023”, ovvero, rispettivamente, a -0,8 e a -0,2 punti percentuali nel confronto con le previsioni pubblicate a gennaio. “Similmente”, prosegue Federmeccanica citando ancora il Fmi, “il commercio mondiale quest’anno segnerà un +5,0% invece del +6,0% precedentemente previsto”.
Venendo più vicini a noi, ovvero alla cosiddetta Zona Euro, Federmeccanica sottolinea che “sia il Fondo Monetario Internazionale, sia la Commissione Europea ritengono che il Pil dell’area crescerà, quest’anno, del 2,7%-2,8%”, ovvero di “oltre un punto percentuale in meno rispetto alla previsione” effettuata a gennaio.
Per quanto riguarda poi direttamente l’Italia, Paese che “insieme alla Germania risulta maggiormente dipendente” dalle importazioni di gas e petrolio provenienti dalla Russia, Federmeccanica scrive che “i principali istituti di ricerca economica hanno fortemente corretto al ribasso le stime per l’anno in corso, collocando il tasso di crescita poco al di sopra del 2,0% rispetto al +3,1% indicato dal Governo nel Documento di economia e Finanza dello scorso aprile”. Inoltre, la stessa Federmeccanica ricorda che, nei primi mesi dell’anno in corso, i prezzi di gas ed elettricità “stanno rappresentando un serio ostacolo alla produzione delle nostre imprese”.
Passando adesso dalle previsioni, o meglio dalle revisioni delle previsioni, ai dati reali riscontrati nei mesi più recenti, Federmeccanica ha affermato che “nei primi tre mesi del 2022” è stata registrata “una flessione dei volumi di produzione pari allo 0,2% sul trimestre precedente”, ovvero sull’ultimo trimestre del 2021. Un dato, questo, che non è certo positivo, ma neanche particolarmente negativo. E ciò per due motivi. In primo luogo, questa decrescita metalmeccanica è significativamente inferiore a quella riscontrata nell’intero settore della nostra industria manifatturiera, ove il calo congiunturale è risultato pari allo 0,9% rispetto all’ultimo trimestre del 2021. In secondo luogo, se si esaminano questi dati in termini tendenziali, ovvero in riferimento al primo trimestre del 2021, si vedrà che ci si trova comunque ancora di fronte a una crescita; crescita pari al +1,3%.
A ciò va aggiunto che mentre il calo occupazionale, riscontrato nell’ultima parte del 2021, sembra essersi arrestato, nel primo trimestre del 2022 si assiste a un crollo del ricorso alla Cassa integrazione guadagni: -72,6% rispetto al primo trimestre 2021. Crollo più accentuato per ciò che riguarda la Cig in deroga (-93,7%) e comunque significativo rispetto alla Cig ordinaria (-80,3%), mentre per ciò che riguarda la Cig straordinaria c’è una preoccupante risalita (+30,6%).
Interessanti i dati relativi alle esportazioni effettuate nel primo trimestre 2022 in confronto a quelle del primo trimestre 2021. A fronte di una crescita totale pari al +18,3%, si riscontra che questa crescita è più forte per ciò che riguarda i 27 Paesi dell’Unione Europea (+20,4%) e ancora più forte in relazione a Stati Uniti (+32,2%), Spagna (+26,3%) e Regno Unito (+22,3%), mentre per ciò che riguarda Cina e Russia siamo di fronte a risultati negativi (rispettivamente, -10,0% e -10,5%).
Se i dati fin qui riportati ci parlano di una situazione intermedia, ovvero non particolarmente positiva né particolarmente negativa, per cogliere le tendenze in corso sono forse più significativi i risultati dell’indagine svolta da Federmeccanica nel suo campione di imprese metalmeccaniche. Si vedrà allora che ben il 93% delle imprese intervistate dichiara di aver riscontrato, nel primo trimestre 2022, rincari dei prezzi delle materie prime e dei semilavorati in metallo rispetto all’ultimo trimestre del 2021. Va da sé che il 93% è un numero molto alto, ma Federmeccanica ha anche sottolineato che si tratta di un numero in crescita. Nella precedente indagine, aveva risposto affermativamente a questa domanda circa l’80% delle imprese intervistate. Siamo dunque di fronte a un trend assai preoccupante.
Inoltre, il 70% delle imprese intervistate dichiara di avere difficoltà di approvvigionamento. Con un altro trend preoccupante e anch’esso in crescita: nell’indagine precedente, questo fenomeno riguardava il 50% delle imprese.
A ciò va aggiunto che l’82% delle imprese dichiara che, nel primo trimestre 2022, l’impatto dei prezzi dell’energia e delle materie prime sui costi di produzione è stato “significativo”. Inoltre, il 62% delle imprese dichiara di aver subito, a causa dei rincari di energia e materie prime, una riduzione del Margine operativo lordo. Riduzione che, nel 67% di questi casi, è arrivata fino al 10% dello stesso Mol. Mentre il 41% delle imprese dichiara che, in conseguenza dei citati rincari, ha intrapreso una “riorganizzazione del lavoro e/o dell’attività produttiva” e il 4% considera una possibile “interruzione dell’attività aziendale”.
Infine, il 53% delle imprese ammette che vi siano conseguenze negative per le stesse imprese a causa della guerra in corso. Conseguenze che, nel 60% di questi casi, danno luogo a una “contrazione dell’attività produttiva”.
Due ultime notazioni. La prima è relativa a una delle considerazioni svolte da Diego Andreis, il Vice Presidente di Federmeccanica che ieri ha presentato i risultati dell’indagine trimestrale assieme a Stefano Franchi, il Direttore Generale della stessa associazione. Andreis ha detto che “il modello del just in time va ripensato”. Come è noto, infatti, una delle caratteristiche principali del toyotismo, il modello organizzativo divenuto egemonico nell’industria manifatturiera a partire dagli anni 80 del secolo scorso, è il precetto “scorte zero” o “magazzino zero”. Nel senso che si riteneva inutile, quando non controproducente, immobilizzare robuste quantità di capitale allo scopo di riempire i magazzini di scorte di materie prime, semilavorati e componenti che sarebbero poi state consumate nei tempi successivi. Ma oggi, ha osservato Andreis, fatta l’esperienza della penuria e delle rarefazioni qui sopra ricordate, le imprese “tendono ad aumentare le scorte”. Tanto che si può quasi parlare di una “corsa globale all’accaparramento” di materie prime e altri prodotti.
La seconda è relativa all’industria dell’auto. Mentre Andreis svolgeva il suo ragionamento, il Parlamento europeo non aveva ancora votato il suo documento che prevede lo stop al 2035 alla vendita di autoveicoli con motorizzazioni a benzina, diesel o gpl. Ma siccome già si sapeva che l’argomento sarebbe stato discusso in giornata, Andreis ha messo le mani avanti affermando che le imprese sono d’accordo sul principio che le autorità politiche indichino degli obiettivi da raggiungere in relazione alle questioni ambientali, ma ritengono non condivisibile l’idea che le stesse autorità scelgano anche le modalità tecnologiche attraverso cui raggiungere tali obiettivi. Le soluzioni tecniche, ha aggiunto Andreis, dovrebbero essere lasciate alle imprese. Che, a quanto si comprende, non condividono la scelta della trazione basata su batterie elettriche.
@Fernando_Liuzzi