È passata nei giorni scorsi la legge per l’etichettatura del made in Italy. Dopo mesi di scandali legati alla moda italiana, con la nuova legge si impone che almeno il 50% del prodotto deve essere fabbricato nel nostro paese. Valeria Fedeli, segretario generale della Filtea e del sindacato europeo del tessile, questa legge rappresenta una vittoria per il sindacato?
Come Filtea e sindacato europeo ci stiamo battendo dal 2000 per l’istituzione di una corretta tracciabilità dei prodotti del settore moda. Non si tratta di chiudere le frontiere, al contrario di aprirsi al mondo, garantendo però al consumatore una corretta conoscenza di tutte le fasi di produzione. Come sindacato non chiediamo che la moda italiana sia fatta interamente nel nostro paese, ma che ci sia una parte importante della produzione in Italia e che siano descritti tutti i passaggi, anche quelli avvenuti all’estero. D’altronde quando i nostri prodotti entrano in Cina o negli Stati Uniti devono avere un’etichetta chiara. Solamente l’Europa, per rispondere a interessi tedeschi e nord europei, non richiede la tracciabilità dei prodotti.
Questa legge risponde alle vostre richieste?
Prima di rispondere a questa domanda è necessario premettere che l’Italia non ha la competenza per regolamentare l’etichettatura del made in Italy perché è un settore di competenza europea. Tanto che nella stessa legge si chiede il sostegno di Bruxelles. Via libera che a mio avviso è complicato ottenere. Quello che c’è di positivo nella legge è una presa di coscienza del problema che può avviare una fase positiva. Come sindacato noi ci battiamo perché venga istituito un marchio volontario che garantisca la trasparenza delle varie fasi di produzione del prodotto. Lo Stato dovrebbe garantire i controlli e promuovere aiuti fiscali alle aziende che volontariamente adottino tale marchio di qualità.
Non pensa che il made in Italy non si debba solo proteggere da merce prodotta quasi completamente all’estero e venduta come italiana, ma anche dal fatto che molte piccole fabbriche italiane non rispetta la più elementare regola sindacale come denuncia molto lucidamente lo scrittore Roberto Saviano?
Sicuramente sì, il nostro paese ha una legalità molto flebile e la camorra e la criminalità cinese si sono inserite, grazie alle gare al maggior ribasso, tra i contoterzisti. Ecco perché chi aderisce al marchio deve garantire tutto il processo della filiera. Non solamente che la parte prodotta all’estero sia prodotta rispettando regole di trasparenza e di eticità, ma che lo sia anche la parte prodotta in Italia. Per esempio, le aziende devono garantire di pagare i contoterzisti abbastanza da garantire che questi possano rispettare il contratto nazionale. Insomma quello che si propone è un marchio non solo di trasparenza e qualità, ma anche etico solidale.
Esiste già un marchio?
Si l’Itf, ma senza la garanzia dello Stato e appropriati sgravi fiscali, non è facile promuoverlo. Alcuni buoni esempi di questa politica son l’accodo con il gruppo Gucci e l’accordo Acrib per la produzione di scarpe nel distretto delle riviera del Brenta.
Dopo gli scandali degli ultime mesi viene da chiedersi se esistano ancora i piccoli artigiani che hanno fatto grande il settore.
Esistono ancora, anche sono a rischio di estinzione per la crisi finanziaria. Bisogna premettere che il sistema era uscito abbastanza bene dall’ultima crisi, quella nata tra il 2000 e il 2005 con l’entrata della Cina nel wto, l’arrivo dell’euro e la fine del sistema multifibre. Per u uscirne si erano chiuse le produzioni di bassa qualità, non più competitive, si è investito molto sulla ricerca e sull’innovazione e ci si è aperti al mondo. Il problema ora è diverso e più grave. Infatti, gli artigiani solitamente lavorano in piccole aziende contoterziste. Aziende sopravvissute alla prima crisi perché rappresentano la qualità della moda italiana, ma che ora a seguito della riduzione del credito da parte delle banche dovuta dalla crisi finanziaria, stanno chiudendo.
Come se ne esce?
Facendo sistema, i grandi gruppi della moda devono presentarsi insieme ai loro terzisti di fronte alle banche.
Gli accordi tra sindacato e imprese rafforzano il sindacato o ne compromettono l’immagine?
Sono fondamentali, in questo caso imprese e sindacati hanno collaborato per promuovere maggiore trasparenza e qualità del lavoro in un settore di punta per la nostra economia. In caso l’Europa bocciasse la legge italiana, ci uniremo alle imprese per promuove un marchio che attesti comunque la qualità del prodotto e l’applicazione del contratto nazionale ai lavoratori che partecipano alle varie fasi della produzione.
Luca Fortis
24/03/10