Fedeli, che ruolo ha avuto la concertazione in Italia?
La concertazione è stata una pratica che ha permesso a lungo di condividere le scelte tra governi e parti sociali. L’ultimo vero grande accordo concertativo è stato quello del 1993, mentre quello siglato con Romano Prodi nel 2006 ha avuto caratteristiche differenti. L’intesa del 1993 con Carlo Azeglio Ciampi riconosceva pienamente la funzione della rappresentanza del lavoro, definendo le regole della contrattazione nazionale e sancendo il ruolo democratico delle rappresentanze sul luogo di lavoro, la funzione dei contratti e la loro applicazione.
Aveva punti di debolezza?
L’unico difetto di quell’accordo è stato nella sua attuazione, che negli anni successivi non ha saputo realizzarsi con le necessaria forza. Ci sono stati solo degli aggiustamenti, forse non sufficienti a interpretare e governare i modi con cui stava cambiando il mondo.
La vera forza di quell’accordo quale fu?
Il ruolo affidato alle parti sociali, che erano consultate sui grandi temi macroeconomici nella ricerca di una condivisione degli obiettivi generali da raggiungere, per assicurare così la partecipazione di tutti i soggetti alla costruzione del bene del paese, in piena coerenza con la funzione confederale dei sindacati.
Ma questa abitudine fini.
Si la concertazione è finita dopo il 2001, con il governo di Silvio Berlusconi, che lavorò con un obiettivo chiaro: si voleva togliere ruolo alle rappresentanze di lavoratrici e lavoratori e così indebolire il sistema di diritti e di condivisione delle scelte. In quegli anni, poi, c’è stato anche il tentativo di indebolire il sindacato attentando all’unità sindacale con l’accordo del giugno 2002.
Dopo i cinque anni di questo governo tornò con Romano Prodi il centrosinistra.
Prodi tentò di riprendere la via della concertazione e rilanciò la cultura per la quale si governa il paese nella sua complessità coinvolgendo le parti sociali nella realizzazione degli obiettivi prioritari, che però sono scelti dall’esecutivo. Anche nell’impostazione di Prodi le scelte di fondo sono sempre del governo, che però si assume la responsabilità di coinvolgere le parti sociali per determinare le azioni migliori per raggiungere gli obiettivi fissati.
Però dava un ruolo alle parti sociali, a differenza di quanto aveva fatto prima Berlusconi.
Sì, ma anche questa fase finì con la caduta repentina del governo di Romano Prodi. Successivamente si è tornati ad una politica di non attenzione verso le rappresentanze del lavoro. Ma il punto è che in quegli anni stava cambiando il mondo, si modificava in profondità la realtà dell’economia. Si aprivano i mercati, le diverse economie nazionali diventavano interdipendenti tra di loro, il commercio mondiale cresceva a dismisura, ma sempre nell’assenza di regole condivise. In poche parole, cambiava il contesto in cui operavano i mercati, ma nessuno governava questa nuova realtà.
Il sindacato risentì di questa trasformazione?
Profondamente, perché la politica delle imprese e del lavoro non si realizza più solo al livello nazionale, ma globale, e non si è lavorato ad una dimensione europea capace di organizzare le nuove forme del lavoro. La dimensione nazionale non basta più per affrontare questo terreno e le difficoltà del sindacato derivano dall’assenza di sviluppo delle scelte europee che aveva compiuto negli anni ’90 il governo Prodi.
Un problema del nostro paese?
Un problema non solo italiano: la stessa cosa accade in altri paesi, anche dove l’interlocuzione del sindacato con le imprese è forte. Anche in questi contesti i sindacati, per pesare nelle scelte, avrebbero bisogno di una dimensione internazionale capace di farli interloquire con i centri di decisione europei.
E’ qui che il sindacato si indebolisce. Cosa servirebbe allora per tornare ad avere un ruolo importante?
C’è bisogno di innovazione, di qualcosa di più nelle forme e nei modi che abbiamo conosciuto. C’è bisogno di conoscere e saper governare i cambiamenti. C’è bisogno di intrecci di conoscenze tra il piano nazionale e quello europeo. Questo intreccio deve diventare sempre più forte per consentire al sindacato di rappresentare il lavoro nelle complesse e multiformi caratteristiche che ha oggi, molto diverse da quelle di una volta.
Ma cosa può accadere al sindacato se non riesce a risalire questa china?
Credo che ci sarà sempre una rappresentanza del lavoro, non penso siano credibili le teorie pessimiste di chi vede un tracollo dietro l’angolo. Ma devono essere ripensate la forma e la cultura delle rappresentanze del lavoro.
Chi lo deve fare?
In Italia la rappresentanza confederale è quella che si sta misurando con i processi che stanno cambiando il mondo del lavoro. Se devi rappresentare il cambiamento che sta avvenendo nelle tipologie del lavoro non puoi immaginare di andare avanti con una struttura che non fa i conti con queste trasformazioni.
Si deve cambiare l’angolo visuale?
Alla fine dell’800, quando nascono le prime camere del lavoro, queste si sviluppano sulla base di sindacati di mestiere. Probabilmente oggi siamo in una fase storica simile a quella, vicini a una nuova rinascita del sindacato. Ogni rivendicazione, inserita nel suo specifico contesto, vale se non cozza con altri interessi del mondo del lavoro: questa è una cultura che ritrovi anche nelle categorie. Una cultura che porta a unire, a rendere tutti uguali: il compito del sindacato moderno deve essere quello di unire le differenze, capire il mondo nel quale viviamo e superare le disuguaglianze create dalle differenze di professionalità e dalle differenze tra settori e categorie. Sono tanti oggi i fattori che determinano le condizioni di impresa e di lavoro, e occorre operare sulla complessità di essi.
E’ questa la vera sfida che il sindacato ha di fronte a sé?
Sì, il sindacato deve riuscire a rilanciare una politica unitaria della rappresentanza dei diversi lavori. Guardando alle trasformazioni che ha vissuto in questi anni l’economia, e quindi il lavoro, con l’occhio diretto al futuro e non al passato. Il sindacato deve leggere le trasformazioni, capirle e sapere organizzare le categorie per quello che sono diventate. Non si può più prescindere da politiche unificanti che tengano conto delle differenze che si sono create.
Un compito che investe soprattutto i sindacati dell’industria?
Non soltanto loro. Riguarda la manifattura, ma anche il commercio, dove si sono verificate tante trasformazioni, dove sono nate tante differenze. E bisogna saper guardare quanto accaduto nelle filiere, ricostituirle, capendo che sono sempre più lunghe, non legate a un territorio e nemmeno chiuse nei confini nazionali. L’obiettivo deve essere sempre quello di capire come si è trasformato il lavoro e intrecciare le diverse realtà dei soggetti ai quali ci si vuole rivolgere e che si vuole rappresentare e tutelare.
E’ in grado il sindacato di operare questa trasformazione?
Credo che il sindacato, proprio perché deve operare questa trasformazione, ha bisogno di attivare all’interno dei suoi gruppi dirigenti livelli di competenza ed esperienza che vengano dalle nuove realtà delle imprese. Figure fondamentali dei cicli produttivi, che sono all’interno dei cicli globali, con esperienze non solo nazionali, che conoscono le realtà delle imprese multinazionali. E credo che il sindacato abbia bisogno anche di motivare giovani intellettuali per farli partecipare alla ricerca del futuro della rappresentanza del lavoro.
Perché si tratta di una rivoluzione culturale?
Sì, il sindacato, come ha sempre fatto nei momenti di grande cambiamento, si deve aprire alle generazioni intellettuali per capire il mondo globale nel quale viviamo, che è diverso da quello precedente. Manifatture, servizi, turismo e cultura: sono questi i settori dove più si è verificato il cambiamento, lì il sindacato deve operare con rapidità e sicurezza per rilanciare il proprio ruolo e il valore del lavoro.