Se c’era una cosa che Sergio Marchionne sapeva bene, è che nell’industria dell’auto, come in poche altre, ci sono tre dimensioni del reale che occorre tenere insieme in un unico disegno: industria, finanza e politica. E che lui lo sapesse lo si era visto quando era riuscito, prima, a far divorziare la Fiat dalla General Motors, e poi far acquisire la Chrysler dalla stessa Fiat, destreggiandosi e confrontandosi, rapidamente e alternativamente, con le fabbriche di Detroit e con quelle di Torino, con la Casa Bianca e con Wall Street.
In questi giorni, invece, qualcosa non ha funzionato nel tentativo, lanciato a fine maggio da Fca, di effettuare una fusione con Renault. Dopo aver ritirato la sua proposta di fusione avanzata a Renault, Fca, nelle scorse ore, ha emesso un comunicato in cui dichiara di continuare ad essere “fermamente convinta della stringente logica evolutiva” della proposta stessa. Una proposta che, sottolinea ancora Fca, “ha ricevuto ampio apprezzamento sin dal momento in cui è stata formulata e la cui struttura e condizioni erano attentamente bilanciati al fine di assicurare sostanziali benefici a tutte le parti.”
Ora è indubbio che, come è stato osservato da diversi analisti, da un punto di vista strettamente industriale, la proposta avesse un senso. E ciò perché le attuali strutture industriali di Fca e di Renault si presentano più come complementari che come concorrenziali. Il che è vero sia da un punto di vista geografico che da quello relativo ai prodotti.
Cominciando con la geografia, si vede subito che Fca è forte negli Stati Uniti, grazie ai marchi ereditati dalla Chrysler, a partire da quello fortunatissimo della Jeep, mentre Renault in quell’area è praticamente assente. Per converso, Renault è più forte di Fca in Europa.
Passando ai prodotti, si rileva con altrettanta facilità che Fca, dopo la svolta impressa da Marchionne negli ultimi anni, è più forte nell’alto di gamma, grazie ancora al marchio Jeep e a marchi italiani come Alfa Romeo, e, ancor più, Maserati. Per non citare Ferrari che è sì stata scorporata da Fca, ma condivide una condizione di parentela derivante dalla comune appartenenza a Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli.
Fin qui, insomma, la prospettata fusione si presentava, effettivamente, come un’occasione per raggiungere un reciproco rafforzamento delle due case costruttrici. Ma c’è un ma, anzi, diversi ma. Dei ma che si chiamano asimmetrie.
La prima asimmetria è di tipo, per così dire, finanziario. È insomma relativa alle diverse strutture delle proprietà dei due gruppi. Una diversità, questa, che, come vedremo, porta dritti dritti dalla finanza alla politica.
Fca, come è noto, risponde sostanzialmente ad un unico proprietario, di gran lunga principale, la già citata Exor. Una finanziaria di famiglia, nata a suo tempo dalla fusione di Ifi ed Ifil, in cui si riflette la natura familiare, per non dire familistica, tipica del capitalismo italiano. John Elkann, infatti, si è sicuramente sforzato di ammodernare la natura della finanziaria, aprendola a una più vasta rete di relazioni internazionali. Resta il fatto che, alla classica domanda “Chi comanda qui?”, Elkann può, e per certi aspetti deve, rispondere dicendo “Qui comando io”. Perché, certamente, comanda essenzialmente in proprio, ma lo fa anche in nome e per conto dei membri di una famiglia che, nel susseguirsi delle generazioni, è diventata sempre più numerosa.
Al contrario, il primo azionista del Groupe Renault è, nientemeno, lo Stato francese. Che ha sì una quota non enorme, pari al 15,1%. Ma, appunto, oltre ad essere il primo azionista, è anche uno Stato che, fin dai tempi di Colbert, il ministro delle finanze del Re Sole, è sempre stato propenso a far pesare il suo potere decisorio sulle vicende economiche. E ciò è tanto più vero adesso che all’Eliseo è tornato a sedere un signore, il presidente Macron, che, nominalmente, si schiera in Europa con i liberaldemocratici dell’Alde, ma, in sostanza, non sembra discostarsi troppo dalla tradizione gollista dell’Europa delle Patrie. Una tradizione che, a sua volta, deriva, per aspetti non secondari, dal bonapartismo e quindi, in ultima analisi, dallo stesso colbertismo. Insomma, anche se non si può dire letteralmente che, in casa Renault, alla domanda “Chi comanda qui?” sia la Repubblica francese a rispondere “Comando io”, è però anche abbastanza sicuro che la stessa Republique non gradirebbe che a rispondere affermativamente fosse uno straniero. E tanto peggio, poi, se questo straniero non fosse un cugino d’Oltralpe, ma un signore che opera tra Amsterdam e Londra, e ha importanti interessi, e significativi legami, oltre Oceano. E ciò proprio perché mentre un singolo capitalista può guardare in via prioritaria all’interesse economico della sua impresa, uno Stato deve avere necessariamente un occhio più attento a una serie di interessi politici, a partire dalla questione dell’occupazione.
A questa prima, decisiva, asimmetria, se ne aggiunge poi un’altra, forse non meno rilevante. Anche se, va detto, la rapidità dei tempi con cui la proposta di fusione, formulata da Fca il 27 maggio, è andata ad infrangersi sullo scoglio costituito dalle resistenze del Governo francese, non ha consentito a questa seconda asimmetria di venire in primo piano.
A cosa ci riferiamo? Al fatto che da un lato, in questa prospettata fusione, stava un soggetto di origine plurale ma ormai già unificato sotto un unico comando. Fca, infatti, è il frutto della fusione di un’azienda europea, la Fiat, con una statunitense, la Chrysler. O, per dir meglio, dell’acquisizione della seconda effettuata dalla prima. Dall’altra parte, invece, c’era non un’azienda singola, ma un’alleanza fra tre case costruttrici. Ora un’alleanza è, di per sé, un qualcosa che ha una struttura abbastanza complessa. Tanto più complessa, poi, in questo caso dove, a un’alleanza originariamente costituita a due dalla francese Renault con la giapponese Nissan, si è poi aggiunto, in un secondo tempo, un terzo alleato: la giapponese Mitsubishi.
Fatto sta che, per restare al solo rapporto fra Renault e Nissan, va rilevato che anche questo rapporto è strutturalmente asimmetrico. Mentre infatti la casa francese detiene il 43% delle azioni di Nissan, quest’ultima detiene solo il 15% di quelle della Renault. E ciò, peraltro, senza che questa quota le dia lo stesso peso politico interno che ha il 15,1% che sta nelle mani dello Stato francese.
Torniamo un attimo agli aspetti industriali della vicenda. Diversi analisti hanno sottolineato che, rispetto alle caratteristiche produttive sommate di Fca e Renault, quelle specifiche di Nissan potevano portare un utilissimo contributo. Infatti, Nissan è universalmente considerata come più avanzata delle case costruttrici europee nella ricerca sull’auto del futuro, con tutto ciò che va dalle motorizzazioni elettriche, a partire dalla questione delle batterie, alle problematiche della guida autonoma.
Insomma, nelle menti degli strateghi di Fca, una casa costruttrice che si è fatta trovare impreparata rispetto alle necessità delle svolte tecnologiche attualmente in corso, una fattiva cooperazione con le aziende del sempre più tecnologico Sol Levante ha probabilmente rappresentato un obiettivo allettante. Solo che, in questo caso, la domanda sopra citata, quella che si chiede “Chi comanda qui?”, deve essersi riproposta in termini esponenziali. Non per caso, le cronache, per non dire le indiscrezioni, narrano che, se si fosse votato al termine della estenuante riunione vissuta ieri dal Consiglio di Amministrazione di Renault, il rappresentante di Nissan si sarebbe astenuto.
Il 2018 è stato, per certi aspetti, un annus horribilis per il mondo dell’auto. E ciò, almeno, nel senso che due dei suoi più quotati protagonisti, Carlos Ghosn e Sergio Marchionne, sono inopinatamente usciti di scena. Il secondo a causa di una morte tanto repentina, quanto prematura. Il primo perché, rimasto vittima del combinato disposto di comportamenti imprudenti e di sottovalutate ostilità, è finito, quando meno se lo aspettava, nella cella di un carcere giapponese.
Per qualche ora è parso che si stesse realizzando un singolare miracolo. Profeta di fusioni in parte realizzate e in parte no, Marchionne; costruttore dell’alleanza a tre, che avrebbe forse voluto pilotare verso una fusione, Ghosn. Ed ecco che, a pochi mesi dalla loro quasi contemporanea uscita di scena, i loro sogni venivano a intrecciarsi e a realizzarsi nella costruzione di quella che avrebbe potuto essere la prima casa costruttrice di automobili al mondo. Ebbene, non è successo. E, forse, non è un caso.
Per piegare le volontà altrui, o per convincere tali volontà con idee diverse da quelle professate fino a un dato momento, servono uomini volitivi. In modo certamente diverso, sia Marchionne che Ghosn lo erano. La loro assenza dalla scena si è probabilmente riflessa nel mancato raggiungimento dell’accordo proposto a Renault da Fca.
Ah, dimenticavo in questa storia di asimmetrie c’è ne è stata anche un’altra che, sin qui, non abbiamo citato: è quella tra l’interventismo dei vertici dello Stato francese, che hanno orgogliosamente rivendicato la loro volontà di proteggere sia l'”occupazione” che gli “insediamenti industriali” e l’attività del Governo italiano. Un’attività per parlare della quale si può ricorrere alla locuzione che veniva usata un tempo, nei bollettini radiofonici, a proposito di notizie metereologiche o risultati sportivi mancanti: dato non pervenuto.
@Fernando_Liuzzi