Martedì 30 settembre, la Fim Cisl ha portato in piazza più di 1.500 lavoratori “veri”, per ricordare al governo quali sono le reali priorità del paese: la crisi delle industrie e la perdita dei posti di lavoro. Intervistato dal Diario del Lavoro il segretario generale della Fim Cisl, Giuseppe Farina, ha spiegato la proposta del sindacato per uscire dalla crisi.
Farina, cosa avete voluto rappresentare con la vostra manifestazione?
Abbiamo voluto porre l’attenzione sulla crisi nella sua evidenza. Di fronte a Montecitorio c’erano più di 1.500 tra delegati e lavoratori “veri”, come cassaintegrati, precari; insomma, c’era l’industria metalmeccanica “in carne ed ossa”. E la loro stessa presenza è stata la testimonianza, una fotografia potremmo dire, del fatto che il lavoro è l’unica priorità del paese, e non le regole del mercato del lavoro.
Le regole non sono importanti?
Noi crediamo che, per dare una risposta al lavoro, bisogna passare attraverso uno straordinario impegno nell’industria e che la crescita potrà avvenire solo se verrà rimessa in moto la macchina degli investimenti. E abbiamo denunciato proprio questo: che siamo stufi di parlare di regole, vorremmo parlare di quali sono i piani che mettiamo in campo per dare lavoro e rilanciare l’industria.
Considerate inadeguato il modo in cui il governo affronta il tema del lavoro?
Esattamente. Perché, anche se noi partecipiamo in maniera attiva, cercando di apportare un contributo reale in tutti i tavoli di crisi industriali aperti al ministero dello Sviluppo Economico, nei fatti ci rendiamo conto che le singole crisi sono generate da problemi a monte, senza risolvere i quali non si potrà mai sanare la crisi in maniera definitiva.
Può farmi un esempio di questi “nodi a monte”?
Prendiamo ad esempio il caso dell’Ilva. Per poter pensare a una qualsiasi risoluzione dei problemi di quest’azienda bisogna prima affrontare il nodo del rapporto tra ambiente e produzioni siderurgiche, cioè quello dal quale si è originata la crisi dell’Ilva. Nodo che, se non risolto in maniera strutturale e definitiva, continuerà a creare situazioni di incertezza per chiunque si impegnerà per produrre acciaio in Italia.
Altri esempi?
Il caso dell’Alcoa, ma anche quelli della Lucchini e dell’Ast di Terni, insomma della produzione dell’alluminio in generale. Se guardiamo a questi casi notiamo che il problema di fondo è che in Italia si paga il 30% in più della bolletta energetica rispetto alle industrie concorrenti, e allora, si capisce, bisogna anzitutto mettere in campo un piano energetico nazionale, magari incentrato sul risparmio energetico. O ancora si potrebbe citare il caso di piccole e medie imprese, strangolate da un sistema creditizio stitico nei confronti delle imprese e che privilegia soltanto l’investimento nella finanza. Per non parlare della fragilità dei territori: con un sistema di regole così incerto e un’amministrazione pubblica che non funziona, non si può certo andare lontani.
Perciò, da dove ripartire per rilanciare l’industria?
Noi crediamo che il rilancio dell’industria non passi dalla soluzione delle singole crisi, il che andrebbe a generare soltanto “soluzioni tampone”, ma dal fatto che ci si doti di un progetto d’industria del paese che, da un lato affronti questi nodi di base, quelli che oggi svantaggiano la nostra industria rispetto alla concorrenza, e che dall’altro preveda piani per rafforzare le nostre filiere teconologiche e le molte eccellenze della nostra industria. Giorni fa avevamo scritto una lettera al presidente del Consiglio per chiedere di essere ricevuti, ma la convocazione che ci aspettavamo non è avvenuta. Ognuno la può giudicare come vuole, ma la sostanza è che noi avremmo voluto, e vorremmo, essere ricevuti per discutere e definire questo piano di industria, sul quale poi ciascuno dovrebbe essere disponibile a trattare.
Quale quindi la vostra proposta?
La nostra proposta è quella di cambiare l’agenda politica e le sue priorità. Noi non dobbiamo solo gestire un declino, dobbiamo rilanciare e reinvestire sull’industria, sui lavoratori e sulle priorità di tutti i precari di questo paese che, comunque, è bene sempre ricordarlo, è un paese nato con una vocazione industriale ed è su questa vocazione che bisogna concentrarsi.
E delle questioni al centro del dibattito politico di questi giorni, cosa ne pensa?
L’art.18, amio avviso, non ha influenza sul lavoro: né lo toglie, né lo mette. E le questioni sul fatto che sia proprio l’articolo il responsabile del freno all’investimento di capitale straniero in Italia, sono solo stupidaggini. Sono fermamente convinto che sul tema della riforma del lavoro si sia generata una strumentalizzazione impropria di temi, come l’art. 18 appunto, che non sono la priorità.
E della proposta di legge di riforma del lavoro?
Noi giudicheremo il disegno di legge delega non sulla base di questi finti nodi, ma sulla base delle risposte che la delega riuscirà a dare in merito a tre punti fondamentali: come favorire l’assunzione a tempo indeterminato, senza dover passare per anni e anni di precariato; come ridurre tutte le forme di precariato abusivo; e come generare un sistema di ammortizzatori sociali che tutelino tutti i lavoratori. La dissociazione fra il dibattito politico odierno e la realtà del paese, quindi dei lavoratori, quindi delle loro reali preoccupazioni e necessità, credo sia emblematica del momento di crisi che stiamo vivendo.
Quindi qual è il suo giudizio sul governo?
Noi avevamo qualche aspettativa che questo governo avrebbe fatto altro dal dirottare l’attenzione pubblica su temi non prioritari, ma ci sbagliavamo. Poi capisco che per il governo sia più semplice far discutere il sindacato sul tema dell’art. 18, ma noi non ci lasciamo depistare e siamo andati in piazza per ricordarglielo. E la qualità e quantità della partecipazione ricevuta, dimostra che quanto le ho detto è vero, che siamo nella ragione.
Fabiana Palombo