Un libricino con un’anonima copertina di tela marrone e bordeaux. Un’ottantina di pagine fragili e ingiallite. Il titolo appare solo sul dorso: “Bakounine-Dio e lo Stato”. Due brevi prefazioni, una a firma Filippo Turati, l’altra Leonida Bissolati, e un’introduzione scritta da Carlo Cafiero ed Eliseo Reclus. Giuseppe Nerbini editore, Firenze, 1908. Come resistere ad una tale preziosità? “E’ veramente raro”, ripete l’anziano venditore, anch’egli fuori tempo, per modi e abito. Antico, come le pubblicazioni messe in mostra nello stand di un mercatino. Lampi del passato, tra roba usata e carabattole.
Vano tirare troppo sul prezzo. L’ambulante-antiquario reagisce orgoglioso, e financo sdegnato. Accarezza il piccolo volume, quasi fosse una reliquia o un grimorio. Non formule alchemiche ma evocazioni di magia politica. Alla fine, la cifra spuntata sembra accettabile. Il padre dell’anarchia commentato dai fondatori del socialismo merita un piccolo tributo. Il testo, un manoscritto che Bakunin non finì, come altri lavori, fu pubblicato per la prima volta a Parigi, dopo la sua morte, nel 1882. E a quella data risalgono anche le note propedeutiche che arricchiscono l’opera.
Esordiva Turati: “Tessere la biografia di Michele Bakounine in poche pagine è impossibile o inutile. Inutile, se la si voglia ridurre a un arido e scolastico promemoria di fatti e di date. Nato a Twee nel 1810, morto a Berna nel 1876, eccetera eccetera. Impossibile se di quella vita ricchissima si voglia sviscerare il ricchissimo significato e trarne condegno insegnamento; perocché il quadro della vita di Bakounine, di questo russo cosmopolita, di questo pensatore soldato, di questo idealista assetato d’azione, travalica ogni confine predisegnato, spezza i limiti angusti d’ogni cornice d’ordinaria misura”.
“Il diavolo a Pontelungo” (così il titolo del critico romanzo dedicatogli da Riccardo Bacchelli) esprime una tesi abbastanza conosciuta e ben presente in altri pensatori di quell’epoca inquieta e rivoluzionaria come Marx, Engels, Proudhon, Kropotkin, e cioè che la religione, “follia collettiva”, “assurda menzogna”, costituisce uno strumento di controllo e di dominio delle masse popolari, ridotte ad una perenne schiavitù. Ma lo fa con tale enfasi e passione da superare in efficacia propagandistica le lucide ma fredde analisi dei suoi contemporanei.
“Amante geloso della libertà umana che considero come la condizione assoluta di tutto ciò che adoriamo e rispettiamo nell’umanità, io rovescio la frase di Voltaire, e dico che, se Dio esistesse bisognerebbe abolirlo”, proclama con veemenza.
Una tale radicalità può suonare blasfema e inaccettabile per chi ateo non è. E in ogni caso l’intreccio tra la Chiesa, di qualunque confessione, e il potere costituito, monarca dittatore, Stato, appare questione dei secoli scorsi, superata dal trionfo della democrazia. Eppure, quando la triade Dio, Patria e Famiglia (“astrazioni spietate e fatali”, “sanguinosi feticci” li definiva der Grosse Russe) viene riproposta come bussola della nazione quale “comunità di destino”, ecco che qualche rovello libertario torna a bussare alla porta della laicità e della tolleranza.
Predicava Bakunin: “Fate che tutti i bisogni diventino realmente solidali, fate che gli interessi materiali e sociali di ciascuno diventino conformi ai doveri umani”.
I tomi usati, passati di mano in mano, sono come delle bottiglie trasportate dalla marea della conoscenza. Dentro si trovano appunti, cartoline, foglietti, persino ricette mediche. Tracce che uniscono idealmente un proprietario all’altro. Da questo che abbiamo in mano spuntano fuori dei ritagli di giornale. “Digiuna da 21 giorni il Gandhi francese”, titolava “Il Giorno” di venerdì 22 giugno 1962. La corrispondente da Parigi, Elena Guicciardi, riportava la notizia che un vecchio tipografo anarchico, Luis Lecoin, 74 anni, pacifista e non violento (nulla, ma proprio nulla, a che vedere con i reati e la protervia individualista di un Alfredo Cospito), stava facendo lo sciopero della fame per ottenere la scarcerazione di 130 giovani che si erano rifiutati di andare sotto le armi durante la guerra di Algeria.
“È ridotto all’ombra di se stesso. Sembra un reduce da Buchenwald, solo pelle ossa, con una fiamma febbrile negli occhi d’asceta”, annotava dolente la giornalista. Alla fine, Lecoin ottenne ragione. Il governo guidato da Georges Pompidou varò una legge sull’obiezione di coscienza.
Pallidi ricordi e sbiadite utopie che suggono nuova linfa, in questi tempi bui, tra i banchetti di una fiera.
Marco Cianca