Sulla vicenda Alcoa interviene il segretario della Fim di Venezia, Gianni Fanecco perché “merita di essere meglio conosciuta nei suoi aspetti essenziali visto che riguarda non solo i diretti interessati ma anche, e vedremo perché, tutti i contribuenti italiani”.
Alcoa, multinazionale americana, produce alluminio anche in Italia con una sua propria società: l’Alcoa Italia che opera con due stabilimenti: in Sardegna , a Portovesme, dove sono occupati 550 lavoratori più altri 300 nell’indotto, in Veneto, a Fusina di Venezia, dove i dipendenti sono complessivamente 480.
La produzione di alluminio si sviluppa in due ambiti: quello primario, dove dal minerale (bauxite) o dal riciclato, si ricava la materia prima tramite fusione e quello della laminazione dove il metallo viene lavorato e predisposto per essere venduto a chi poi lo utilizzerà per farne prodotti di consumo finale, dalle lattine per bevande alle auto e agli aerei. Precisa Fanecco che “i problemi riguardano esclusivamente la fusione che, diversamente dalla laminazione, richiede un ingente consumo di energia elettrica. Non a caso è considerata tra le produzioni definite “energivore”, grandi mangiatrici di energia”.
Per capire il caso Alcoa Italia bisogna tenere conto di altri due fatti.
Il primo è che vi è una sostanziale differenza tra i due stabilimenti: in Sardegna si fa solo la fusione mentre a Fusina si fa soprattutto la laminazione (vi sono occupati 350 lavoratori), mentre la fusione, che occupa gli altri 130 dipendenti, non copre comunque la richiesta interna di materia prima che viene quindi portata dalla Portovesme.
Il secondo è che in Italia il prezzo della energia elettrica ad uso industriale è (causa l’assenza cronica di una politica energetica adeguata) doppio rispetto agli altri Paesi europei (60 euro Megawattora rispetto ai 30 euro medi UE). Per le produzioni energivore il prezzo di questa materia prima è tra i costi principali della produzione. Nel caso dell’alluminio poi la sua incidenza sul costo del prodotto è cresciuta a dismisura dopo il crollo dei prezzi che si è registrato, con la recessione, nei mercati internazionali.
“Fino a due anni fa- prosegue il sindacalista – cioè prima della crollo dei prezzi, per mantenere la competitività degli stabilimenti italiani ed evitare bilancio in passivo e quindi chiusura, il governo (i governi) intervenivano ogni anno, con una norma della legge Finanziaria, per abbattere il costo dell’energia elettrica consumata da Alcoa. Qualcosa come 13 milioni di euro al mese, che, in 15 anni di aiuti hanno significato 2,3 miliardi di euro a carico dei contribuenti, cioè soprattutto dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.”
Fino a due anni fa, appunto, perché la Commissione Europea ha contestato questo intervento pubblico in quanto aiuto di Stato ed appioppato una multa di 300 milioni di euro (180 per lo stabilimento di Venezia e 120 per quello di Portovesme) di cui, alla fine si è fatto carico lo Stato italiano per evitare il fallimento di Alcoa Italia. La multa non è stata ancora pagata ma nel frattempo la pratica Alcoa è andata avanti e la Commissione Europea presieduta da Barroso l’ha chiusa definitivamente ammettendo la possibilità di uno sconto sul costo dell’energia ma a due precise condizioni: solo per lo stabilimento sardo (seconda una regola generale della UE per cui possono essere agevolati le aziende energivore che operano nelle isole in quanto in condizioni di svantaggio) e solo come riduzione della tariffa applicata dal produttore della energia (Enel in questo caso) e quindi non più finanziamento pubblico statale. Enel naturalmente potrà recuperare le minori entrate spalmandole sulle bollette di tutti i suoi utenti.
Nell’incontro dei giorni scorsi a Palazzo Chigi, con la presenza del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, a cui hanno partecipato i rappresentanti di diversi ministeri, delle organizzazioni sindacali, tra cui lo stesso Fanecco e Giulio Fortuni della Cisl del Veneto, si sono delineate le linee di azione per mettere in pratica il dettato europeo ed impedire la chiusura di Alcoa (che con il blocco degli aiuti perde oggi ogni giorno 70 mila euro) e quindi la fine della produzione di alluminio in Italia.
“Il piano prevede che Alcoa investa 40 milioni di euro affinché a Portovesme si riprenda a fondere (e l’Enel applicherà lo sconto) mentre a Fusina gli impianti di fusione verranno messi in stand bey per manutenzione ed in attesa che si riesca ad avere energia elettrica a prezzi più bassi o di una ripresa dei prezzi del metallo a livello internazionale tali da ridurre il peso del costo attuale dell’energia. Sempre a Fusina l’azienda investirà 25 milioni di euro per potenziare l’attività di laminazione. Il tutto – prosegue Fanecco – non comporterà alcun licenziamento e nessun ricorso alla Cig. Per i 180 addetti alla fusione di Fusina si prospettano infatti tre diverse soluzioni: l’occupazione della manutenzione degli impianti, il passaggio alla laminazione ed infine la possibilità di accedere agli incentivi che l’azienda infine metterà a disposizione per chi vorrà andarsene anche con l’eventuale prepensionamento. Oltre a ciò circa 40 lavoratori oggi precari saranno assunti con contratto a tempo indeterminato”.
Ecco perché, per il dirigente della Fim “la posizione della Fiom avversa a questa ipotesi appare poco comprensibile e quindi molto strumentale. Lunedì prossimo abbiamo l’appuntamento al Ministero dello Sviluppo Economico per trasformare il piano, con la trattativa, in un possibile accordo aziendale che sarà valutato dai lavoratori. Noi ci saremo anche perché l’alternativa è una sola ed è quella che nessuno vuole: l’abbandono di Alcoa e la perdita definitiva della produzione di alluminio”.