Alle numerose grane industriali del paese, da Ilva a Stellantis, rischia ora di aggiungersene un’altra. Il nuovo caso si è aperto il 24 ottobre scorso, quando l’Eni ha annunciato ai sindacati il progetto di riorganizzazione della chimica di base, cioè Versalis: un piano che ha al centro gli impianti siciliani di Priolo e Ragusa e di Brindisi, e che prevede, in estrema sintesi, l’uscita dell’ente energetico dalla petrolchimica. Il progetto è stato immediatamente contestato dai sindacati, che hanno chiesto un incontro a Palazzo Chigi, mentre in Sicilia, a Ragusa, hanno indetto uno sciopero generale di otto ore per tutta l’industria, il 12 novembre. Marco Falcinelli, segretario generale della Filctem Cgil, ce ne spiega le ragioni.
Falcinelli, in sostanza l’Eni afferma che continuare a produrre la materia prima nei cracking di Priolo e Brindisi costa più che comprare la stessa materia prima sul mercato. Cosa c’è di sbagliato, in questo?
Di sbagliato c’è proprio l’idea di fondo: cioè quella di cessare la chimica di base, cioè un elemento che è indispensabile per alimentare buona parte dell’industria chimica nazionale: la produzione di Versalis viene per l’80% utilizzata da altri settori industriali, aziende che fanno plastica, tessuti, vernici, eccetera. L’Eni dice: ma quel prodotto non mancherà, lo prendiamo sul mercato, a minor prezzo. Ma questo significa rendere l’Italia dipendente da un mercato che oggi è a buon prezzo, domani chissa’.
Domani potrebbe non esserci più, o non essere altrettanto a buon mercato?
È un periodo di forti incertezze internazionali, abbiamo già visto cosa è accaduto negli anni passati col gas russo, abbiamo il 76% dei principi attivi della nostra farmaceutica che arrivano dalla Cina. Davvero adesso vogliamo creare una nuova dipendenza, mettere il futuro della nostra chimica nelle mani di altri paesi produttori, che siano l’Africa o il Medio Oriente, o comunque paesi tutt’altro che stabili?
D’altra parte, l’Eni sulla chimica di base ha perso 3 miliardi in cinque anni. Anche questo va tenuto in considerazione, o no?
Intanto, le perdite sono dovute alla bolletta energetica, e l’Eni stessa ci aveva più volte detto che avrebbe posto al governo il tema. Ma soprattutto, l’Eni non è Stellantis, non è una azienda totalmente privata, è partecipata al 30% dallo Stato, deve tenere in considerazione i conti, ovviamente, ma deve pensare anche al bene del paese. Ha una missione di responsabilità sociale.
E’ stato garantito che non ci saranno perdite occupazionali, che tutti i posti di lavoro saranno salvaguardati e protetti. Non è così?
Ma questo riguarda solo i dipendenti diretti dell’Eni: la chiusura di Priolo, per dire, avrà una ricaduta enorme sull’indotto e sull’occupazione indiretta, saranno a rischio circa cinquemila posti di lavoro. Ma soprattutto non è quello dell’occupazione il solo tema, il problema fondamentale.
E qual è allora?
Quello che dicevo prima: c’è di fondo un tema di politica industriale. Uscire totalmente dalla petrolchimica, cioè la chimica di base, è un errore. Inoltre, abbiamo già visto questo film: quando negli anni scorsi abbiamo contrattato con l’Eni la chiusura del cracking di Porto Torres, si disse che sarebbe servito a fare decollare la chimica verde, ma di quel progetto si è realizzato si e no un terzo. E sulla chiusura di Porto Marghera ci dissero che la produzione necessaria ad alimentare gli impianti di Ferrara e Mantova, che dipendevano appunto dall’impianto di Marghera, sarebbe stata garantita da Priolo e Brindisi. Ma se adesso chiudono anche questi, non ci sarà più nessun impianto di cracking nel nostro paese. L’Eni da produttore si trasforma in trader, privandosi di una tecnologia che forse è vecchia, forse può essere ammodernata e migliorata, ma certamente non dismessa, rendendoci dipendenti dall’estero in un settore chiave. Tanto più che proprio l’Ad di Eni, Claudio De Scalzi, ha sempre sostenuto che la nostra dipendenza dall’estero deve essere ridotta. Come si concilia con questa scelta?
L’Eni garantisce che sulla chimica continua a investire, e che a Brindisi si farà una gigafactory. Non ci crede?
Si, ma come ho spiegato, il problema è la chimica di base che serve a tutti gli altri produttori. E soprattutto, va tenuto conto del contesto: viviamo in tempi incerti, che non richiedono scelte radicali, ma di procedere per aggiustamenti. Quanto alla gigafactory, le prime batterie si faranno nel 2028. E nel frattempo? Finirà come a Porto Marghera e a Porto Torres, dove i progetti sono tutti fermi? Il secondo tempo della partita non si è mai giocato. Per questo abbiamo chiesto un incontro a Palazzo Chigi: per capire se è il governo ad aver dato il via libera a questa operazione, e se, nel caso, ne hanno compreso a fondo tutte le implicazioni per il futuro del paese e delle sue industrie.
Nunzia Penelope