Nonostante la crisi che avanza, l’economista Sebastiano Fadda vede una via d’uscita in interventi concreti di politica economica in grado di rilanciare la crescita e produrre sviluppo. La riforma del lavoro, a suo giudizio, non avrà un impatto né positivo né negativo perché manca un aspetto fondamentale senza il quale non può esserci crescita: l’integrazione tra politiche di sviluppo e politiche del lavoro.
Professor Fadda, siamo al culmine della crisi?
No, non siamo ancora arrivati all’apice. La crisi si avvita a spirale con conseguenze negative che ancora si devono manifestare nella loro interezza, come ad esempio la contrazione del pil e la diminuzione dell’occupazione. Il caso strano è che solo ora si realizza che le manovre messe in atto sono recessive.
Con quale atteggiamento si sta affrontando questa situazione in Italia?
Il paese sembra essere in una fase di contemplazione, come se stesse assistendo al passaggio di un fenomeno atmosferico, più che a un risultato prodotto da agenti economici e scelte politiche.
Gli italiani sembrano aver perso fiducia.
La sfiducia non deriva dalla consapevolezza di misure economiche sbagliate, piuttosto dalla percezione d’iniquità della manovra. La gente che sta male interpreta la propria condizione economica come il risultato di scelte istituzionali sbagliate che hanno scaricato in maniera diseguale le conseguenze della crisi. Si percepisce l’ingiustizia del fatto che a pagare siano sempre gli stessi.
C’è una via d’uscita?
Sì: promuovere crescita e sviluppo realizzando misure di politica economica adeguate. Occorre innanzitutto ristrutturare la base produttiva ed espandere la domanda per ottenere effetti benefici che conducano a una ripresa economica. Poi bisogna far crescere la produttività, riequilibrare le quote redistributive riducendo le rendite a favore dei salari. Infatti si è allargata la forbice tra salari nominali e prezzi e questo ha portato a una diminuzione dei salari reali. Andrebbe rivisto in questo senso il sistema di calcolo dell’inflazione previsto dall’accordo del 2009 e anche la parte della contrattazione di secondo livello legata alla produttività.
La riforma del mercato del lavoro potrà migliorare questa situazione?
La riforma non avrà impatto positivo né negativo, gli effetti saranno ridotti e non è detto che vadano nella direzione giusta. Poi ci sono molti equivoci quando si parla di flessibilità.
Perché?
Sulla flessibilità in entrata non mi sembra che ci siano stati interventi in grado di ridurre le rigidità che gravano di più sulle imprese, ossia i costi di aggiustamento dovuti alla fluttuazione della domanda, ai processi di ristrutturazione, conversione, riorganizzazione gestionale e del lavoro. Rispetto a questa situazione si dovrebbe avere una flessibilità massima, che non è invece garantita dalla riforma. Il disegno di legge, invece, riduce il costo del lavoro per unità di prodotto attraverso una riduzione del costo del lavoro per unità di lavoro. Questa è una flessibilità spuria. Non c’è stata poi una significativa riduzione di quei fenomeni di precarietà del lavoro quali le partite iva e i contratti di associazione in partecipazione, ma un aggravamento burocratico con aumento dei costi per le imprese, oneri contributivi che verranno probabilmente fatti pagare ai lavoratori. Si poteva intervenire riducendo il costo del lavoro a tempo indeterminato o parificando i contratti sul piano delle ferie e dell’orario di lavoro. Quindi il risultato è un aumento degli oneri burocratici senza una crescita delle tutele del lavoro.
Cosa pensa della flessibilità in uscita?
Dovrebbe essere massima in caso di motivazioni economiche, ossia in caso di recessione, contrazione della domanda e degli ordinativi, insomma in tutti quei casi in cui effettivamente l’azienda non ce la fa a mantenere il lavoratore, altrimenti non c’è nessun motivo di applicarla. Il costo del lavoro non può essere inteso come costo fisso anche quando i servizi del lavoratore non servono più. E in questi casi dovrebbe essere la collettività a farsi carico della situazione.
Cosa manca a questa riforma?
Un’integrazione tra le politiche di sviluppo e quelle di lavoro, senza la quale non può esserci crescita. Non ha senso parlare di flessibilità senza prevedere politiche attive del lavoro e sostegno al reddito. Il sistema non regge senza l’integrazione di questi aspetti.
Francesca Romana Nesci