La notizia è secca: il giudice del dibattimento del Tribunale di Taranto, Francesco Maccagnano, ha respinto l’istanza presentata da Ilva in Amministrazione straordinaria; istanza con cui era stata chiesta una proroga dei lavori in corso per la messa in sicurezza dell’Altoforno 2. Adesso, si teme che l’altoforno sarà nuovamente sequestrato dalla Procura della città jonica.
La notizia è secca, ma sembra di averla già sentita altre volte. Per comprenderne significato e portata, bisogna dunque datarla. E allora diciamo che risale alla serata di ieri, martedì 10 dicembre. Aggiungendo, come hanno scritto oggi Domenico Palmiotti e Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, che essendo giunta al termine di una giornata in cui si era riaccesa qualche speranza sul futuro dell’acciaieria tarantina, l’annuncio ha avuto l’effetto di una doccia gelata.
Capita, a volte, che una breve sequenza di avvenimenti, inseriti in una vicenda molto più lunga e molto più complessa, abbia la capacità di offrire una sintesi che aiuta a comprendere il senso dell’intera vicenda. Ed è forse questo ciò che è accaduto rispetto alla sempre più drammatica vicenda dell’ex Ilva di Taranto.
Ecco dunque. La sera di lunedì 9 dicembre,la Procura della Repubblica di Taranto dice sì alla richiesta avanzata da Ilva in Amministrazione straordinaria. Richiesta relativa a una proroga dei termini entro cui effettuare i lavori di messa in sicurezza dell’Altoforno 2, quello definito, nel gergo aziendale, Afo 2.
Nella mattinata di martedì 10 dicembre, robuste delegazioni di lavoratori dell’ex Ilva, oggi ArcelorMittal Italia, provenienti da Taranto, Genova e Novi Ligure, partecipano alla manifestazione sindacale nazionale – indetta da Cgil, Cisl e Uil – che si tiene a Roma, in piazza Santi Apostoli, per denunciare la sempre più grave situazione di un sistema produttivo affetto da decine di crisi aziendali. Crisi fra cui primeggia quella del più importante gruppo siderurgico attivo nel nostro Paese.
Più o meno nelle stesse ore, e sempre a Roma, si è tenuto un primo incontro fra il nuovo rappresentante del Governo italiano incaricato di seguire la vicenda Ilva, Francesco Caio, e l’Amministratore delegato di ArcelorMittal Europa, il belga Geert Van Poelvoorde. Incontro in cui, a quanto si è appreso, si sono manifestati atteggiamenti reciprocamente dialoganti, in un clima che un commentatore informato ed equilibrato come Paolo Bricco, sempre sul Sole 24 Ore, ha definito “costruttivo”.
E poi, in serata, da Taranto, arriva la notizia ferale: nonostante il parere positivo della Procura, il giudice Maccagnano ritiene di non poter accogliere l’istanza di proroga avanzata da Ilva in Amministrazione straordinaria. I 9 mesi richiesti per installare il nuovo macchinario richiesto dal custode giudiziario dell’area a caldo, Barbara Valenzano, costituirebbero, per il Tribunale, un tempo troppo lungo. Notizia ferale anche se, a dire il vero, non del tutto inattesa. Infatti, secondo alcuni interpreti, la relazione consegnata nei giorni scorsi all’Autorità giudiziaria dalla stessa Valenzano, pur riconoscendo all’Ilva di aver presentato l’analisi di rischio relativa all’Afo 2 entro i termini temporali previsti, sottolineava che non sono state ancora messe in atto le procedure operative conseguenti all’analisi. Dando quindi alla sua relazione un significato forse più negativo che positivo nei confronti dell’Amministrazione straordinaria che, a tutti gli effetti giuridici, è ancora proprietaria dello stabilimento siderurgico fin qui formalmente affittato, anche se con un impegno di acquisto, da ArcelorMittal.
Perché abbiamo detto che gli eventi di questi pochi giorni, si starebbe per dire di queste poche ore, offrono la sintesi di una vicenda più lunga e più complessa? Perché i protagonisti presenti sulla scena, e il copione che guida i loro comportamenti, sono, più o meno, gli stessi degli ultimi 7 anni.
E questo è vero, innanzitutto, per la magistratura tarantina. Fin da quando, il 26 luglio del 2012, su richiesta della Procura di Taranto, il Gip Patrizia Todisco dispose il sequestro, “senza facoltà d’uso”, degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento Ilva, è parso che tale magistratura abbia cominciato a considerare tale stabilimento, o per dir meglio la sua attività, vista sotto un profilo ambientale, come un fatto criminale in sé. È quindi dal 2012, e cioè dal decreto-legge 207, emanato il 3 dicembre dal Governo Monti, che reimmette l’Ilva nel possesso dei suoi beni e la autorizza a portare avanti la sua attività produttiva, che inizia un sordo conflitto tra il Governo nazionale ela Magistraturatarantina.
Infatti, il Governo Monti, e poi i tre Governi a guida Pd della scorsa legislatura (Letta, Renzi e Gentiloni), non sono insensibili alla tematica ambiente & salute, e operano anzi, specie gli ultimi due, per far sì che si avvii un serio risanamento ambientale dell’area tarantina, a partire da un abbattimento delle potenzialità inquinanti del centro siderurgico. Pensano però che, come insegna l’esperienza di Bagnoli, sia più credibile un processo di risanamento di un centro siderurgico in attività, che non di un centro siderurgico chiuso e abbandonato.
Sette anni, dunque, di sequestri, da una parte. Sette anni di decreti, dall’altra. Scudo penale compreso. Che fu inventato infatti, dai Governi a guida Pd, per proteggere i Commissari straordinari cui, a partire dal gennaio 2015, fu affidata una triplice missione. Primo, tenere in vita stabilimento tarantino e azienda, complessivamente intesi. Secondo, avviare il risanamento del centro siderurgico jonico. Terzo, impostare una gara internazionale per individuare un possibile compratore. Missione che implicava, ovviamente, di mandare avanti quotidianamente lo stabilimento di Taranto, ovvero quello stabilimento che rischiava di essere considerato non tanto come un corpo di reato, ma come un reato ambientale in sé. Con la conseguenza di far considerare i Commissari straordinari che lo amministravano come dei complici di un reato.
In piccolo, come abbiamo già osservato in un precedente articolo, questa è stata anche la storia dell’Altoforno 2. Teatro, l’8 giugno del 2015, dell’incidente mortale di cui rimase vittima l’operaio Alessandro Morricella. È divenuto quindi oggetto di una serie infinita di sequestri, ricorsi, dissequestri, processi, accuse, istanze e chi più ne ha, più ne metta. Con Procura e Tribunale variamente, e talvolta conflittualmente, intenti a bloccarne l’attività, e l’Amministrazione straordinaria intenta a portare avanti un’opera di aggiornamento tecnologico forse troppo lenta, ma i cui tempi possono essere difficilmente dettati da qualche consulente convocato dalla Magistratura.
Adesso siamo di fronte a una svolta che si presenta come drammatica. Neanche a farlo apposta, venerdì 13 dicembre scadono i termini fissati dal Tribunale per il completamento dei nuovi lavori di messa in sicurezza dell’Altoforno 2. Ma già sappiamo che in 48 ore non si completano dei lavori per cui l’Ilva ha chiesto 9 mesi. Ora il punto è che l’ipotesi di un nuovo sequestro dell’altoforno viene a cascare nella situazione conflittuale, tra Governo e ArcelorMittal, che tutti conoscono. Nonché in una situazione in cui un altro dei due altiforni attualmente in funzione avrebbe bisogno di urgenti lavori di manutenzione.
L’avvio del processo di spegnimento dell’Afo 2 potrebbe quindi rappresentare un colpo mortale per l’Ilva di Taranto a gestione ArcelorMittal. Un colpo che potrebbe vanificare i tentativi di sfornare nuovi piani industriali con annessi nuovi piani ambientali. È una guerra contro il tempo che chiama il Governo Conte2 adare il massimo di ciò che è in grado di dare. Per intanto, l’unica novità della giornata è l’annuncio della richiesta, da parte dell’azienda acquirente, di un nuovo massiccio ricorso alla Cassa integrazione straordinaria, nell’ordine di 3.500 unità. Richiesta che vede, ovviamente, il fermo no dei sindacati.
Cosa succederà domani, non lo sa ancora nessuno.
@Fernando_Liuzzi