“Il modo con cui si sta trattando il problema della ex-Ilva fa pensare quasi a una grande operazione di distrazione di massa, per non dire a una vera e propria distorsione della realtà, consapevole o no che essa sia.”
Queste parole, dure e dirette, fanno parte di un documento datato Taranto, 26 settembre. Un documento che Pietro Ichino ha avuto il merito di pubblicare sul suo blog (pietroichino.it), nella giornata di lunedì 5 ottobre, sotto il titolo Un appello per l’Ilva.
Ichino definisce i sei firmatari del documento come “ex-dirigenti dello stabilimento tarantino”. Gli autori, con maggiore modestia, definiscono sé stessi come “siderurgici per alcuni decenni”. Ma si tratta indiscutibilmente di siderurgici di alto livello. Basti dire che fra i loro nomi, oltre a quello di Roberto Pensa, ingegnere attivo con ruoli dirigenziali all’Ilva di Taranto dagli anni della proprietà pubblica fino a quelli della gestione commissariale, passando per il periodo della proprietà Riva, c’è quello di Enrico Gibellieri, che dopo aver svolto, fra l’altro, una pluriennale attività di ricerca proprio nello stabilimento tarantino, è stato l’ultimo presidente della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
A monte dell’appello, si intuisce una fortissima preoccupazione circa le sorti del grande stabilimento siderurgico; una preoccupazione che deve essersi accumulata negli ultimi anni nelle menti dei firmatari. Anche se, va detto, lo spunto polemico da cui il testo di cui stiamo parlando prende le mosse è il documento presentato il 14 settembre scorso, pochi giorni prima delle elezioni regionali, dal Partito democratico. Un documento ambiziosamente intitolato Taranto capitale del Green New Deal.
Ebbene, per gli estensori dell’appello – oltre ai due già citati vi sono anche Filippo Catapano, Michele Conte, Biagio De Marzo e Pasquale Lenzi – il testo del Pd, qualificato come “l’ultimo dei documenti e delle dichiarazioni stravaganti alle quali abbiamo assistito negli ultimi anni”, mostra “una inadeguata consapevolezza dei processi siderurgici nel mondo” e, in particolare, “della complessità e della durata” di quella “trasformazione della siderurgia” che dovrebbe “eliminare il carbonio dal suo ciclo produttivo”.
“L’acciaio green – incalzano gli estensori dell’appello – è un progetto per il quale occorrono decenni, investimenti massicci, ipotesi produttive e di efficienza tutte da dimostrare.” Infatti, prosegue il documento, è vero che “quasi tutti i maggiori gruppi siderurgici europei hanno avviato sperimentazioni su scala pilota di tecnologie che puntano” al raggiungimento di obiettivi “verdi”; si tratta però di progetti che puntano a raggiungere tali obiettivi “in un arco di tempo di almeno trent’anni”. E tutto ciò “con ingenti investimenti e disponibilità di energia elettrica da fonti rinnovabili e a costi accessibili”.
“La Commissione Europea, grazie all’azione congiunta di imprese e organizzazioni sindacali europee – è scritto ancora nell’appello – ha previsto una serie di strumenti per accompagnare questa enorme trasformazione. In particolare, nel prossimo programma quadro europeo di ricerca e innovazione (Horizon Europe), è prevista la creazione di una PPP (Public-Private-Partnership), un organismo pubblico-privato dotato di fondi pubblici e privati per lo sviluppo e l’applicazione di nuove tecnologie basate sulla progressiva eliminazione del carbonio dal ciclo produttivo” e sulla sua “sostituzione con altri elementi riducenti quali, ad esempio, l’idrogeno.”
Non solo. “Anche il Fondo per l’Innovazione (Innovation Fund) sarà disponibile per finanziare la fase di trasferimento dei risultati di ricerca verso la dimensione industriale”. Inoltre, “anche il fondo di recupero dell’economia europea dalle conseguenze della pandemia da Covid-19”, il cosiddetto Recovery Fund, “potrà essere utilizzato dagli Stati membri dell’Unione Europea per accompagnare questo lungo e complicato processo del cambiamento dell’economia”.
Insomma, sottolineano gli estensori dell’appello, “l’impegno della siderurgia europea per la decarbonizzazione dei processi siderurgici, facendo presenti necessità di finanziamenti, tempi e rischi, sembra sincero e condiviso” ed è anche “per noi condivisibile”.
Ma allora, qual è il punto? Dove è che l’analisi che sta alla base dell’appello si differenzia da quella del documento pre-elettorale del Pd? Ecco la risposta: “L’utilizzo dell’idrogeno per la produzione di acciaio non è una tecnologia praticabile a breve”.
Da questa risposta derivano conseguenze precise. Infatti, se, come è scritto nell’appello, “l’acciaio green è un progetto per il quale occorrono” non solo “investimenti massicci”, ma anche “decenni”, sorge necessariamente un interrogativo: “Nel frattempo che cosa si fa?”.
“Con i progetti europei – insistono gli estensori dell’appello – possiamo lanciarci verso qualsiasi soluzione moderna e adeguata allo sviluppo tecnologico e di difesa della salute dei cittadini, ma nel frattempo cosa facciamo di questo stabilimento, da domani in avanti?” Ebbene, per i sei firmatari “questa è la risposta mancante ed elusa da tutti”.
“E’ molto facile – incalza polemicamente l’appello – indicare obiettivi futuristici dimenticando che, ogni giorno, ci sono 12.000 famiglie che devono vivere e alle quali occorre indicare una prospettiva degna e sicura.” Non solo. “La cortina fumogena” delle “ormai troppe fantasie tecniche che girano sulla fabbrica serve, in realtà, a creare alibi” e a “giustificare il non procedere; forse a nascondere gravi e drammatiche decisioni quali la chiusura della fabbrica.”
Dopo aver così analizzato alcuni aspetti fondamentali della questione della cosiddetta decarbonizzazione, con i suoi nodi problematici e le sue prospettive pluriennali, il documento passa a una denuncia senza sconti della situazione attuale del centro siderurgico tarantino: “In questa vicenda, che oggi vede una fabbrica paralizzata, un indotto in difficoltà e migliaia di persone in Cassa integrazione, il Governo resta silente”. Intanto, la gestione di ArcelorMittal Italia, a causa delle “difficoltà economiche”, “è indotta a operare per priorità con manodopera ridotta, rinviando attività e acquisto di ricambi: questo espone la fabbrica a un progressivo degrado e a potenziali rischi per il personale e per la popolazione in considerazione della particolarità della produzione e dei suoi impianti”.
Infatti, “la principale criticità che sta accompagnando la vita della ex-Ilva, oggi AMI,” è “l’impossibilità di realizzare i volumi produttivi necessari perché questa azienda possa diventare profittevole”. Ma “un’azienda privata non può gestire una fabbrica perdendo considerevoli quantità di denaro”. Ne segue che la stessa fabbrica, “per difficoltà di mercato e per mancanza di cassa, si sta lentamente spegnendo, assottigliando i volumi di produzione e la manodopera”.
“E’ veramente incredibile che dopo 8 anni”, ovvero, anche se nel documento il riferimento non è esplicitato, a distanza di anni dal primo intervento della magistratura tarantina (agosto 2012), “dopo un percorso che, attraverso la definizione dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) normalizzava la questione ambientale dello stabilimento regolandone i processi, richiedendo limiti emissivi inferiori alle normative europee, adeguando gli impianti alle migliori tecnologie, si voglia ripartire – è scritto nell’appello – su un percorso totalmente diverso, di elevata complessità, dimenticando lo stabilimento che esiste, che ha avviato e in molti casi completato i costosi interventi di adeguamento” ambientale, che “è fatto in un certo modo per cui deve produrre acciaio ogni giorno”, che “deve affrontare la concorrenza internazionale”, che “dà ogni giorno lavoro a circa 10-12.000 persone (compreso l’indotto)”, che “ha alle spalle una città di circa 200 mila persone e una provincia di circa 400 mila persone da esso profondamente dipendenti.”
E’ cioè incredibile che si voglia “illudere la gente” con “il progetto dell’acciaio green a breve termine”.
Invece, secondo gli estensori dell’appello, “un’azione industriale seria deve essere frutto di una visione realistica dell’effettiva, critica situazione e deve accelerare il processo del recupero produttivo nel rispetto dei vincoli e parametri ambientali imposti dall’AIA”. E ciò ricordando che, come è “ben noto”, “per lo stabilimento di Taranto una produzione di acciaio inferiore ai 6 milioni di tonnellate/anno non consentirà mai un bilancio aziendale accettabile e quindi il mantenimento dei livelli occupazionali”.
Sono dunque “urgentissimi”, da un lato, “la ridefinizione del rapporto con la multinazionale Mittal e dei piani industriali della controllata AMI”; dall’altro, “il rafforzamento della vigilanza del Governo sul rispetto degli accordi” e affinché “ non vengano trasferite altrove quote di mercato”.
A breve, occorre invece puntare sul “ritorno dello stabilimento a una situazione di normalità produttiva con l’attuale impiantistica, riavviando nel più breve tempo possibile tutti gli impianti fino a raggiungere il massimo livello di produzione possibile con un rischio sanitario accettabile all’esito della VIIAS (Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario) e della ISTISAN 19/9 e consentito dall’andamento del mercato”, nonché “con la massima occupazione possibile”.
“Non c’è molto tempo per agire”, conclude l’appello. “Se non si mette fine al chiacchiericcio inconcludente e non si prendono rapidamente le decisioni necessarie, lo stabilimento sarà condannato a una progressiva irrilevanza, unita al trasferimento della sua produzione in altri stabilimenti del gruppo ArcelorMittal e alla chiusura definitiva, con conseguenze terribili per i lavoratori e per il territorio.”
@Fernando_Liuzzi