Giorgia Meloni l’ha fatta grossa, esattamente come aveva pianificato. Dopo mesi di latitanza riferisce alla Camera prima del Consiglio europeo e i temi da affrontare, lo sappiamo, non è che fossero pochi. Però, a un certo punto, decide di fare all in e punta tutto su una chiosa che ha avuto un po’ l’effetto del mago che lancia la bombetta di fumo per fingere la sparizione: si lancia in una interpretazione del Manifesto di Ventotene, lo stesso al centro della manifestazione del 15 marzo invocata da Michele Serra a cui hanno preso parte tutte le formazioni “de sinistra” (tranne una), che ha scatenato una bufera di reazioni delle quali Meloni ha approfittato per darsela a gambe e non riferire oltre. In questi giorni le interpretazioni del fatto si sono sprecate tanto quanto le urla in parlamento (un po’ di fermezza di spirito non sarebbe sgradita), ma l’unica vera sintesi risale all’anno scorso con il film Un altro ferragosto di Paolo Virzì.
«“Alla cortese attenzione della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Lei, signora, conoscerà la storia dell’Isola di Ventotene, dove dal 1932 fino all’estate del 1943, mille oppositori del regime fascista furono costretti al confino”….aspe’, ricominciamo». Passeggiando con il nipotino Tito sul poggio, Sandro Molino (Silvio Orlando) racconta: «Questo è quello che rimane del pollaio costruito da Spinelli con l’aiuto di Pertini […] dove Spinelli, insieme alla moglie Ursula, ha appuntato con il lapis sulle cartine delle sigarette i primi appunti di quel documento visionario…», «Il manifesto di Ventotene», risponde Tito. «L’Europa libera e unita […] Insomma, questo luogo è un simbolo che verrà preservato grazie alla nostra lettera». Sandro chiedeva a Ursula von der Leyen la consacrazione dell’isola a sacrario d’Europa e se fosse ancora vivo mercoledì sarebbe morto una seconda volta: l’impegnato giornalista “radical chic”, fino all’ultimo respiro ha creduto nell’ideale di un’Europa libera e unita e in fantasie sempre più vivide ha conversato con Sandro Pertini, Camilla Ravera, Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann e Altiero Spinelli. Quando la famiglia Mazzalupi, cliché dei cafonal di destra, si prende la briga di radere al suolo il pollaio per il parterre del matrimonio di Sabrina “Sabry”, si scopre che in realtà quel rudere è stato fatto rimettere in piedi dal figlio di Sandro, Altiero, dopo che era stato abbattuto una prima volta qualche anno prima nel tentativo di costruire il belvedere di un resort, per non dare un dispiacere al padre malato di demenza. «Quel rudere che avete abbattuto – dice Sandro irrompendo al matrimonio – era importantissimo per la memoria di questo Paese…non credo ci sia bisogno di ricordare quello che succedeva su quest’isola: le menti migliori di quella generazione furono deportati qui, in manette, per le loro opinioni e nonostante la fame, le botte, l’isolamento, riuscirono a concepire un’idea di libertà, solidale». E allora Betta (Raffaella Lebboroni) incalza: Sandro è «un feticista della memoria, un rompicoglioni ossessivo, ma non è che in questo Paese può finire sempre a tarallucci e vino…E allora abbiate il coraggio di dirlo che per voi l’antifascismo non è un valore, non lo è mai stato, non è rilevante!». Un concetto che richiama inappuntabilmente l’articolo di Riccardo Barenghi nella sua rubrica Giochi di potere ospitata qui sul diario: «Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi, adesso può tranquillamente toglierseli dalla testa: la nostra premier, forse non sarà più fascista (chissà…), ma certamente non è antifascista». E che cos’è il fascismo, al giorno d’oggi?, si interroga ancora Sandro. In Italia chi la invoca la parola fascismo non va in galera, ma fa carriera, «e se la parola fascismo sta bene, la parola democrazia sta malissimo». «Levateje er vino!», grida un astante. E allora Sandro, sconfitto, li sogna, i padri dell’Europa: «Abbiamo sbagliato tutto, non dovevamo permettere di lasciar succedere quello che è successo…siamo stati deboli, divisi, abbiamo commesso degli errori imperdonabili […] le democrazie sono in crisi, rinascono i nazionalismi e noi? Noi siamo diventati ZTL». «ZTL? Che formazione è? Che partito?», domanda Spinelli. «Sai come dicono oggi? – spiega Sandro – Radical chic […] abbiamo dimenticato il vostro grande insegnamento». «Ma noi -dice Colorni – non abbiamo insegnato proprio niente».
Ecco cosa siamo: figurine bidimensionali che si muovono in un mondo sfuggito alla nostra comprensione, contemporanei solo a noi stessi e mai alla Storia che corre furiosa; maschere che interpretano ruoli prestabiliti perché inaccettabile l’idea di trattenere la memoria e lasciar andare il passato. In Parlamento non c’è stato un confronto, ma una romantica assemblea d’istituto tutta fegato, in cui se allora l’ormone giustificava l’impeto, oggi non è rimasta nemmeno l’intelligenza della maturità. Forse solo tanta nostalgia, la voglia di sentirsi vivi e pronunciare parole d’impeto come un “ti amo” detto all’amorazzo estivo o il “vaffanculo” al genitore per una ramanzina. Perché va bene l’interpretazione di un testo sacro, ma non va bene il vilipendio sotteso; va bene la protesta accorata, ma non va bene stracciarsi le vesti davanti a un elettorato in cerca di certezze, non di crisi di nervi. «C’è da costruire un popolo nuovo, di donne e uomini liberi! Finalmente liberi, liberi dalla dittatura, ma anche dall’ignoranza, dalla stupidità, dal cazzeggio cinico, dalla vanità…Presidente – dice Sandro a Pertini mentre lasciano l’isola – non ci prendono più!».
Elettra Raffaela Melucci