Giacomina Cassina
Ogni volta che si vara un nuovo Trattato europeo o si modifica il precedente, inizia un gran dibattito sulla potenzialità delle modifiche, sulle occasioni perse, sui difficili scambi intervenuti nella stratta finale tra i paesi membri e& sul Trattato prossimo venturo. Il Trattato di Nizza, purtroppo, sembra firmato solo per rispettare, con molta forma e poco contenuto, il mandato conferito dagli Stati membri a se stessi: dare all’Unione europea un assetto in grado di reggere all’impatto dell’allargamento.
Nizza da dimenticare, insomma, per evitare recriminazioni sterili, ma soprattutto per cercare risposte vere ed efficaci alle esigenze dell’integrazione, dell’allargamento e dello sviluppo di un’area che vuole diventare ‘l’economia basata sulla conoscenza, più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale’ (Conclusioni del Vertice di Lisbona).
Il dibattito sul dopo-Nizza o, se si preferisce, sul futuro dell’Europa, viaggia su due binari: da una parte ci si compiace del livello di discussione prodotto dai bozzetti di architettura istituzionale dei tedeschi, apprezzati da Amato ma criticati dai francesi; dall’altra, si da’ fiato a diatribe un po’ bottegaie ma molto realistiche che manifestano l’indisponibilità degli Stati membri a decidere a meno che& la lista degli ‘a meno che’ è lunga e ognuno sente il bisogno di arricchirla. Decodificando i due livelli di dibattito si scopre, che c’è più coerenza di quanto non sembri tra architetti e bottegai ma, dato che la vincono questi ultimi per la loro concretezza, è lì che si devono cercare le soluzioni.
La Germania insiste sui temi istituzionali da quando l’unificazione monetaria è stata decisa, convinta che il sacrificio del Deutsche Mark sull’altare dell’Euro possa essere ripagato soltanto da un’Europa politica forte e strutturata che rassicuri i cittadini tedeschi sulle prospettive di sviluppo, di benessere e di stabilità. Però la Germania non è felice che le politiche nazionali vengano sempre più erose da competenze comunitarie (anche se solo condivise), tanto più che, come stato federale, le sue stesse competenze sono già piuttosto ridotte dall’autonomia dei suoi Ländern. Se quest’analisi è corretta, quando Schröder chiede che la Commissione diventi un esecutivo europeo forte, pensa ad un autorevole Vigile euro-urbano, in grado di regolare il traffico istituzionale tra Europa, stati e regioni e non certo ad un governo con ampio potere di proposta, anche su materie che, non rientrando nelle competentenze attuali, potrebbero, in futuro, esigere un certo grado di ‘comunitarizzazione’. Non è un caso che il cancelliere tedesco integri, nella sua proposta sulle istituzioni, una sulle politiche, volta a riconsegnare alla gestione dei singoli stati membri, alcune competenze oggi ‘in comproprietà’ con l’UE (in materia sociale ed occupazionale, per esempio) e alcune altre, invece, esclusivamente comunitarie (come la politica agricola – PAC – e anche una parte rilevante delle politiche strutturali). Quanto a Fischer, la differenza con Schröder è solo sulla concezione istituzionale, non politica. Al Comando centrale dei ‘Vigili europei’ spetterebbe, quindi, una competenza ampia in materia di polizia (creazione di una sorta di FBI), di politica estera e di emigrazione. Ma su quest’ultimo punto casca l’asino& la Germania, infatti, tra i suoi ‘a meno che’, ha messo una lunga deroga di 7 anni al diritto alla libera circolazione delle persone e della prestazione di servizi, per i paesi che entreranno a breve nell’UE. Con questa posizione salva il suo interesse economico nei mercati in crescita dell’Est, mantenendo una protezione sul suo mercato del lavoro e dei servizi. Una soluzione flessibile (5 anni di deroga, più 2 aggiuntivi, se necessario), proposta dalla Commissione e accolta dagli altri paesi, non è stata, per ora, adottata.
La Francia critica le proposte tedesche, sia perché troppo ‘federali’ e poco attente alla filosofia dello ‘Stato-nazione’, sia perché non vuole che si tocchi la situazione attuale delle politiche comuni e, in particolare, della PAC, della quale beneficia ampiamente. Ma gioca solo di rimessa, proponendo, come la Germania, di rafforzare la Commissione, di delimitare in modo più chiaro le competenze comuni, di conferire all’UE la politica estera. Propone, inoltre, di sottrarre all’unanimità le decisioni in materia di bilancio e di fiscalità, e quelle relative alle revisioni della ‘costituzione’ europea: interessante, ma perché non si è fatto a Nizza? E’ difficile leggere, nella ‘querelle’ franco-tedesca che ha sostituito il tradizionale ‘asse’ tra i due paesi, uno scontro tra fautori del modello federale (tedeschi) e fautori del modello confederale (francesi) perché, più che le teorie istituzionali, il dibattito si sta aggrovigliando, come si è visto, sulle politiche e, nella migliore delle ipotesi, sui poteri degli stati membri (non sul ‘futuro dell’Europa’).
Sul fronte del sud, intanto, la Spagna punta i piedi e prende anche lei in ostaggio – sia pur in modo strumentale – il diritto alla libera circolazione, ‘a meno che’ non si decida di mantenere il livello attuale di aiuto alle regioni spagnole in ritardo di sviluppo. Poi, nelle discussioni al Consiglio sulle misure volte a riaprire una politica di immigrazione, è la Spagna, con Italia e Belgio ad avere le posizioni più avanzate e meno ‘protezionistiche’.
Inutile aggiungere che, come dimostra il secondo Rapporto sulla coesione economica e sociale, con l’allargamento si impongono alcune scelte che è pura illusione pensare di evitare. Il cosiddetto ‘effetto statico’ (con l’ingresso di candidati mediamente più poveri dei 15, gli attuali ‘più poveri’ diventano ‘più ricchi’) produrrebbe l’esclusione di molte regioni che oggi hanno un reddito inferiore al 75% della media comunitaria. Ma a ciò si potrebbe ovviare con la scelta di nuovi criteri per distribuire le risorse (per esempio il 90 o il 95% della media del reddito), mantenendo così un intervento più ampio. Oppure con un sostegno straordinario e temporaneo per le regioni dell’obiettivo 1 ‘in uscita’ (‘phasing out’). Oppure ancora con ccriteri differenziati per i nuovi paesi membri, ma una disparità di trattamento tra gruppi di Stati sarebbe difficile da accettare per i paesi candidati, anche se compensata con l’allocazione generosa di risorse. Oppure& (ma questo il Rapporto sulla coesione non lo dice, né lo può dire) con una drastica ristrutturazione tra voci di spesa che sposti una quota rilevante di risorse dalla politica agricola alla politica di coesione (urla della Francia: da Jospin alla destra, da Delors all’ultimo contadino bretone). Oppure (e questo sono pochissimi a dirlo), ci si dovrebbe mettere finalmente d’accordo (attenzione: all’unanimità!) per dotare l’Unione europea di un bilancio come si deve, superando quel tetto delle risorse proprie fermo all’1,27% del PIL comunitario da dieci anni (urla della Germania che dice ‘ho già dato’).
Il dibattito sul futuro dell’UE, insomma, investe temi veri che hanno una loro dignità, ma ristagna tra i veti incrociati perchè le decisioni cruciali per l’integrazione esigono l’unanimità: adesione di nuovi paesi, politiche strutturali, struttura di bilancio e fisco, cambiamenti del Trattato.
I paesi tradizionalmente ‘freddi’ verso il processo di integrazione (Regno Unito, Danimarca, Svezia) tacciono. Tengono in riserva la ‘spada nella roccia’ del veto, prima di farsi invischiare in decisioni che implichino una maggior assunzione di responsabilità solidali. Ma pongono anche loro alcune riserve sulle decisioni correnti, soprattutto in materia di immigrazione, di politiche sociali e, perfino, di ricerca e sviluppo.
In questo dibattito bloccato c’è, però, anche chi indica una pista metodologica seria: è il commissario Barnier (politica regionale) che chiede di partire da quello che vogliamo fare assieme e poi decidere come e con che mezzi farlo. Speriamo che, esauriti i rituali bellici propiziatori, qualcuno gli dia retta. La Confederazione europea dei sindacati ha organizzato, per il 18 di giugno, un dibattito che contribuirà a definire la sua posizione sul futuro dell’Europa. Ci sarà, tra gli altri, anche Delors, l’ultimo grande architetto – per ora – del processo di integrazione. La CES potrebbe entrare nel dopo-Nizza con tutto il peso dei lavoratori europei e sviluppare una posizione originale sulle politiche di cui la società europea ha bisogno, considerando che ai diritti sociali servono non solo una maggiore solidità istituzionale ma anche mezzi – finanziari, sì, finanziari – per essere adeguatamente applicati. La mobilitazione sociale in Europa, se fondata e coesa, autonoma e libera da nazionalismi e ideologie, potrebbe spiegare con chiarezza, ai governi dei paesi membri, che efficacia decisionale e responsabilità contributiva sono un binomio inscindibile di cui il futuro dell’UE non può fare a meno.