Il giuslavorista Ciro Cafiero tira le somme su quanto emerso nel corso della summer school sulla Dottrina sociale della Chiesa e formazione socio-politica rivolta a giovani studenti, che si e’ svolta in agosto a Solanas e alla quale hanno preso parte docenti laici ed ecclesiastici di fama internazionale, amministratori locali, imprenditori, sindacalisti.
Cosa sta facendo l’Europa in materia di sicurezza sociale?
I risultati non sono ancora soddisfacenti. L’azione è molto più orientata alla promozione del benessere per mezzo dell’azione delle banche. E così, ad esempio, la BCE, da un lato, attraverso il Quantitative Easing, compra titoli di stato detenuti dalle banche e immette nelle loro casse liquidità, dall’altro, le incentiva a mettere quella liquidità sul mercato rendendone sconveniente l’immobilizzazione. Il Quantitative Easing si aggira intorno agli 80 miliardi di euro al mese.
Non a caso, la proposta dell’“Helicopter Money”, un gruppo di intellettuali di vari paesi europei, è quella di spostare tali risorse verso progetti di finanziamento della sicurezza sociale, a partire dal finanziamento del reddito minimo garantito europeo. Ambizione condivisa anche dal movimento “Nuit Debut” francese, esploso in contrasto alla riforma del lavoro nel 2016 da poco approvata.
Qual è l’idea di sicurezza sociale in Europa?
La Carta di Nizza fa riferimento ad una protezione universalistica ed inclusiva del “cittadino laborioso”. Essa, come auspicato dall’agenda di Lisbona nel 2000, dovrebbe realizzarsi anzitutto con il dialogo inter-istituzionale sulla scorta della best practises. Inoltre la clausola sociale (art. 9 TFUE) obbliga l’Unione nell’insieme delle sue politiche a non regredire dal livello di tutela sociale acquisito.
Come si conciliano austerity e l’idea europea di sicurezza sociale?
In questi anni, per le vicende a tutti note, è stata data priorità alle politiche di austerity più che a quelle di sicurezza sociale. In tale contesto, vi è peraltro un rischio di arretramento delle politiche di sicurezza sociale: le misure di austerity europee, infatti, sono insindacabili sia a livello sovranazionale che nazionale e come tali sfuggono al bilanciamento dei principi contenuti nella Carta di Nizza, ivi compresi quelli in materia di sicurezza sociale. Si tenga a mente che la sentenza Pringle del 27 novembre 2012, C-370/12 ha ricordato che il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) è un Trattato internazionale e come tale “immune” dai principi della Carta di Nizza.
In Italia quali connotazioni assume l’idea di sicurezza sociale?
Il nostro ordinamento sembra molto più legato all’idea di un reddito/sussidio come frutto di scelte responsabili del cittadino/lavoratore, più che all’idea di un assistenzialismo statale puro. Né più né meno l’idea a cui si ispira il sistema previdenziale in base a cui il cittadino accantona nelle casse degli istituti previdenziali somme di cui godrà in futuro, una volta entrato in quiescenza.
Si tratta di una considerazione suggerita non solo dall’esperienza pratica ma anche da una riflessione storica. Il sistema di assicurazione sociale nasce in Italia nel segno delle società di mutuo soccorso (disciplinate poi con legge n. 3818 del 1886) ovvero associazioni volontarie di lavoratori, che provvedevano a ripartire all’interno della collettività degli associati i rischi comuni (malattia, infortunio, inabilità, ma anche disoccupazione, morte, incremento del carico familiare, ecc.) in una logica di solidarietà redistributiva di stampo economico: limitata al gruppo degli individui che responsabilmente vi contribuivano economicamente. Non era concepita dunque alcuna forma di intervento statale e quindi di finanziamento a carico della finanza pubblica, a differenza che in Germania dove sin dalle origini era forte la tendenza a demandare allo Stato la gestione dell’assicurazione sociale (la prima è stata introdotta nel 1883 dal cancelliere Bismarck).
Solo grazie a forti spinte provenienti dalla sinistra, specie dei socialisti riformisti, dei cattolici, della destra «illuminata», il nostro Paese ha fatto passi in avanti sul terreno della sicurezza sociale ed è giunto a farsi carico, non di tutte, ma di alcune particolari e primarie situazioni di bisogno dei cittadini.
E cosi, nel 1904, è stata varata la legislazione antinfortunistica, nel 1907 quella relativa alla tutela per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, nel 1910 è stata istituita la Cassa nazionale di maternità per la tutela delle donne in occasione del parto o dell’aborto; nel 1919 è stata istituita l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione. Le teorie di Marshall in tema di legislazione sociale hanno dato una spinta in questo senso (Citizenship and social class in Citizen and social development, New York, 1964).
Alla luce di queste considerazioni, come giudicare la proposta di un reddito minimo garantito in Italia?
Il reddito minimo garantito, molto diffuso nel Nord Europa, si ispira all’idea di assistenzialismo statale puro (c.d modello bevederidgeano) e dunque agli antipodi di quella di un reddito/sussidio quale frutto delle scelte responsabili del cittadino/lavoratore, a cui – come detto- sembra più legato il nostro Paese.
Per questo, sarei dell’opinione di orientare l’azione del legislatore verso due direzioni diverse da quella del reddito minimo. La prima è quella di potenziare gli strumenti di workfare, cioè di quei percorsi che danno diritto all’erogazione di un sussidio a fronte di un servizio svolto per la collettività, sulla scorta del modello dei lavoratori socialmente utili, o, in assenza, della partecipazione a seri corsi di formazione professionale.
In tal senso, non bisogna restare legati all’idea di servizio standard ma aprirsi alle opportunità che offre il nuovo mercato di servizi, in piena espansione anche grazie alla rivoluzione tecnologica. E ciò a partire dal servizio di trasporto di persone e cose su commissione di una piattaforma on-line.
La seconda è quella di rendere effettivo il sistema della c.d. condizionalità nell’ambito del rapporto di disoccupazione, in base a cui il lavoratore disoccupato percettore di un sussidio ha diritto ad esso sino a quando non gli viene offerto un lavoro “ragionevole” ovvero che, in base alle sue competenze, può svolgere.
Ciò posto, sappiamo – e ce lo ricorda un articolo apparso di recente sul sito Neodemos – che in questi anni la disoccupazione è cresciuta tra gli individui giovani più qualificati e alla ricerca di un lavoro di qualità che non hanno trovato mentre è diminuita tra quelli più anziani e, per questo, più disponibili a svolgere un lavoro manuale che, all’occasione, non hanno esitato ad accettare.
Tant’è che, come ci ricorda il medesimo articolo, “l’incremento di 500 mila lavoratori fra il 2013 e il 2016 è frutto della combinazione fra la diminuzione di 500 mila lavoratori in età 15-49 e l’incremento di un milione di lavoratori ultracinquantenni”.
Per rendere effettiva la c.d. condizionalità, dunque, occorre creare lavoro di qualità per offrirlo ai giovani disoccupati che, altrimenti, continueranno a rifiutare offerte non all’altezza della propria professionalità per scivolare, infine, nel limbo dei neet, quelli che non studiano, non lavorano e non cercano più lavoro.
Continuare a moltiplicare o riammodernare le strutture di collocamento deputate all’offerta di lavoro, come accade oggi, serve a ben poco. Si tratterebbe sicuramente di un passo verso l’Europa 2.0, ovvero attenta alla specificità di ogni singolo Paese, e che ripudia la finanziarizzazione dell’economia quale unico antidoto alla crisi, di cui ha parlato in una sua recente intervista il gesuita padre Giraud.
Ciro Cafiero