Le notizie sono tre (più una). La prima è che ieri l’associazione delle imprese metalmeccaniche – e cioè la Federmeccanica – e i sindacati dei lavoratori metalmeccanici – e cioè Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil – hanno tenuto una conferenza stampa congiunta. E questo solo fatto già ci dice che l’argomento dell’incontro stampa, ovvero le condizioni e le prospettive del settore automotive, si trova collocato in una zona di allarme. Nelle parole di chi la conferenza stampa l’ha convocata, infatti, tali condizioni e tali prospettive costituiscono, ormai, “un’emergenza che oscilla pericolosamente tra grandi opportunità e gravi rischi”.
La seconda notizia è che nel corso di questo incontro con la stampa, dedicato, come si è detto, al settore automotive, ovvero a un settore che in un non lontano passato è stato luogo e occasione di conflitti laceranti fra sindacati e imprese, nonché fra gli stessi sindacati (si pensi al “caso” Pomigliano), i massimi dirigenti delle quattro organizzazioni – il Presidente di Federmeccanica, Federico Visentin, e i Segretari generali di Fim, Roberto Benaglia, Fiom, Francesca Re David, e Uilm, Rocco Palombella – non si sono limitati a stare tutti seduti, come è stato sottolineato, “dalla stessa parte del tavolo”, ma hanno parlato all’unisono. E questo secondo fatto, per certi aspetti, si presenta come un ulteriore indizio della gravità della situazione.
La terza notizia è che hanno potuto parlare all’unisono perché alla base dell’iniziativa non c’era tanto una convergenza più o meno estemporanea, quanto un serio lavoro di analisi congiunta del settore svolto da una struttura paritetica creata ad hoc dai firmatari del Contratto dei metalmeccanici: l’Osservatorio Automotive. Un osservatorio che “è stato costituito da Federmeccanica e Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil appositamente per monitorare e prevedere i potenziali scenari futuri” del settore e il cui lavoro si è condensato in un primo documento reso noto ieri.
Ma c’è di più. E questo di più sta nel fatto che sindacati e imprese non si sono rivolti al Governo solo per chiedere un po’ di ammortizzatori sociali, e cioè delle quantità aggiuntive di reddito che aiutino i lavoratori del settore a “passare la nottata” della crisi da Covid-19; né per chiedere le tradizionali misure di incentivazione alla cosiddetta “rottamazione” degli autoveicoli più attempati, ovvero misure da assumere a sostegno della domanda, nel caso specifico, di autovetture. Ma per chiedere al Governo, se ci si consente il bisticcio, di governare la situazione in cui si trova quello che viene definito, nel succitato documento, “un settore chiave dell’economia italiana”. Un settore rispetto al quale c’è però un “concreto (…) rischio di deindustrializzazione”.
Cominciamo dunque dal chiarire che cosa si debba intendere con “emergenza” quando oggi si usa questo termine per parlare delle condizioni e delle prospettive del settore automotive nel nostro Paese. Qui, stando al documento presentato ieri in una sala da conferenze sita in piazza Montecitorio, ovvero di fronte alla sede della Camera dei Deputati – dove, di lì a poco, il riconfermato Presidente della Repubblica, Mattarella, avrebbe prestato giuramento -, ci sono due aspetti: uno storico e l’altro di prospettiva.
Quello storico parla di “una caduta della produzione nazionale di autoveicoli che è passata dagli oltre 1,8 milioni di veicoli del 1997 ai 700.000 del 2021”. Caduta che, in un quarto di secolo, ha implicato una perdita della produzione annua di autovetture collocabile attorno alle 500.000 unità. E ha comportato, come ha ricordato Francesca Re David, Segretaria generale della Fiom-Cgil, il fatto che il nostro Paese sia sceso dal secondo all’ottavo posto fra i produttori di auto in Europa, mentre attualmente “viene utilizzata solo la metà della capacità produttiva installata”.
Per quanto riguarda invece le prospettive, il documento congiunto ricorda che “l’intervento dei regolatori istituzionali, a fronte della grave emergenza ambientale legata ai consumi di energie non rinnovabili ed alla sovrapproduzione di CO2, sta producendo un’ulteriore accelerazione dall’esterno dei processi di trasformazione dei mercati e degli attori automotive”; processi già in corso a causa della “normale evoluzione delle tecnologie” e delle “naturali pressioni competitive”.
Ne segue che “in Europa, nel luglio 2021, la Proposal for a Regulation of the EU Parliament and of the Council” ha previsto “entro il 2035, lo stop alla vendita di nuove auto, ed entro il 2040 dei furgoni, che producono emissioni di carbonio”. Dopo di che, “nel dicembre 2021 il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica” ha previsto “analogo stop per l’Italia”.
Ebbene, il documento prosegue affermando che “recenti stime (Anfia – Clepa – PWC) considerano che tale misura”, senza altri interventi, “porterebbe a una perdita di mezzo milione di posti di lavoro nella UE”. Tale perdita sarebbe parzialmente compensata da “226.000 nuovi posti di lavoro previsti nella produzione dei sistemi di propulsione dei veicoli elettrici, con una perdita netta di 275.000 posti di lavoro”. Ciò al livello dell’Unione Europea. Per quanto riguarda, specificamente, l’Italia, le stime prospettano “una perdita di circa 73.000 posti di lavoro, di cui 63.000 nel periodo 2025-2030”.
Ora qui dobbiamo staccarci dalla lettura del documento congiunto delle imprese e dei sindacati metalmeccanici per chiarire un punto essenziale circa la struttura dell’industria dell’auto nel nostro Paese.
Per ciò che riguarda la produzione di autovetture e di furgoni, va ricordato che, ormai, in Italia è rimasto un solo produttore, Stellantis, frutto della fusione della francese Peugeot con l’italo-americana Fca, frutto a sua volta della fusione di Fiat e Chrysler. Stellantis è dunque l’unico grande gruppo che, nei suoi stabilimenti superstiti, assembla autovetture e furgoni che, poi, vengono avviati alla vendita sotto diversi marchi, quali Fiat, Alfa Romeo, Maserati, Jeep.
Più ampio il concetto di automotive che, nella sua massima estensione, comprende l’intera filiera che va dalla progettazione di nuovi modelli, a monte della produzione, ai servizi collocati a valle e connessi alla vendita e alla manutenzione di autovetture e furgoni. Una filiera buona parte della quale è composta dalla progettazione e dalla fabbricazione della componentistica.
Ebbene, il punto è proprio questo. Ovvero che, all’ombra della Fiat e delle altre case costruttrici un tempo attive in Italia, nel nostro Paese si è venuto strutturando un subsettore della componentistica auto sempre più differenziato e diffuso. Cosicché vi sono regioni e zone in cui non vengono prodotti né auto, né furgoni, e in cui, tuttavia, la componentistica auto costituisce una parte significativa dell’industria metalmeccanica, ma anche di quella di altri settori, a partire dalla chimica. E’ così accaduto, da un lato, che in Italia si siano via, via insediate anche imprese straniere del settore, come la tedesca Bosch o l’americana Delphi. Mentre, dall’altro, le nostre imprese della componentistica sono andate ben oltre il loro scopo iniziale, e cioè quello di rifornire i costruttori italiani del settore auto, puntando in misura sempre più rilevante alle esportazioni. Tanto che, nei tempi più recenti, l’esportazione di componentistica italiana verso le case costruttrici attive in Germania è diventato uno degli esempi più classici dei processi di integrazione industriale sviluppatisi nell’ambito dell’Unione Europea.
Ciò chiarito, torniamo a bomba, ovvero al documento congiunto di cui stiamo parlando. Un documento dove si può leggere che il fatto che l’impatto delle misure assunte dall’Unione Europea possa essere “proporzionalmente maggiore per l’Italia rispetto ad altri Paesi dell’industria automotive è ben giustificato per la forte presenza di attività legate alla powertrain (propulsione) del motore a combustione interna”. E ciò, spiega ancora il documento congiunto, perché “l’architettura stessa del veicolo elettrico è caratterizzata da un minor numero di componenti.” Da ciò deriverà, “verosimilmente”, un “minor contributo di occupazione”. “Già oggi – aggiunge il testo – i dati sull’andamento dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali forniti dall’Inps indicano la tendenza.” Infatti, mentre “nel 2019 sono state utilizzate 26 milioni di ore di Cassa integrazione”, nel 2021 ne sono state utilizzate “quasi 60”.
Per gli estensori del documento, tuttavia, non esistono solo le ombre che gravano sull’industria italiana dell’auto. A rischiarare qua e là un panorama altrimenti deprimente, c’è anche qualche luce: “distretti come la Motor Valley” dell’Emilia-Romagna, “le aziende dello stile per la carrozzeria e gli interni”, nonché “i centri di sviluppo di costruttori e componentisti, realizzano produzioni di alta qualità e sviluppano contenuti di prodotto riconosciuti in tutto il mondo”.
Che fare, dunque, in una situazione così complessa? “Le parti sociali dell’industria metalmeccanica e meccatronica”, è scritto nel comunicato congiunto diffuso ieri all’inizio della conferenza stampa, accogliendo la sollecitazione venuta dal Presidente del Consiglio “ad una prospettiva economica condivisa”, “chiedono di incontrare con urgenza” lo stesso presidente del Consiglio “insieme ai Ministri dell’Economia e delle Finanze, del Lavoro e delle Politiche sociali, dello Sviluppo economico e della Transizione ecologica”. E ciò “per valutare assieme le condizioni e le possibili iniziative da attivare in merito ad alcune questioni cruciali emerse dall’Osservatorio Automotive”.
“Di fronte alle molte crisi, ma anche alle importanti opportunità per il settore – è scritto nel documento dell’Osservatorio – ci si interroga sulla presenza delle Istituzioni. Pensiamo all’annuncio, salutato con entusiasmo, dell’installazione di grandi stabilimenti di produzione di batterie per l’autoveicolo elettrico: ad oggi non risultano siano stati formalizzati atti concreti che ne favoriscano e ne vincolino la realizzazione.”
E ancora: “Si sente la necessità di un governo delle politiche industriali attrezzato di risorse e competenze specifiche per l’Automotive con la capacità di comprendere e gestire le crisi aperte, ma soprattutto di identificare e promuovere le eccellenze distintive, dal design alla carrozzeria, dal benessere abitacolo alla meccanica di precisione, alle tecnologie della meccatronica, facendo convergere le iniziative e valorizzando le sinergie trasversali con altre filiere”. “Sono evidenti – prosegue il documento – le criticità rappresentate dall’accesso alle produzioni di microprocessori e semiconduttori di potenza, oltre che dalla produzione di software, nonostante nel nostro Paese siano presenti produttori importanti: occorrono azioni che permettano di valorizzare le interazioni e le ricadute positive sul territorio italiano.”
Tutto chiaro, dunque? Fino a un certo punto. Perché l’aspetto paradossale dell’incontro di ieri era che dietro al tavolo che fronteggiava i giornalisti c’erano sì i rappresentanti dei lavoratori di tutta la parte metalmeccanica del settore automotive, nonché i rappresentanti delle imprese della componentistica, ma mancavano quelli dell’unica grande casa costruttrice di autovetture e furgoni rimasta in Italia, ovvero i rappresentanti di Stellantis. Come è noto, infatti, l’allora Amministratore delegato, Sergio Marchionne, portò la Fca fuori da Confindustria, e quindi anche da Federmeccanica, proprio dieci anni fa, ovvero a partire dal gennaio del 2012.
In questi giorni, giorni in cui tanti nuvoloni si sono addensati sugli stabilimenti italiani della ex Fca, Stellantis ha lanciato una raffica di annunci che sembrano volti a distrarre l’opinione pubblica dalle preoccupazioni palesate sul loro futuro dai sindacati dei metalmeccanici, in particolare da Fim-Cisl e Fiom-Cgil. Ed ecco che, dopo l’intervista rilasciata da Tavares al Corriere della sera, anch’essa piuttosto preoccupante, Stellantis annuncia una restituzione anticipata del prestito Sace che era stato concesso dal Governo a Fca nel giugno 2020, in piena crisi da Covid-19. Mentre, subito dopo, lancia la notizia della definizione del Premio di risultato che sarà erogato ai dipendenti nel 2022.
Morale della favola. In Italia, discutere di auto senza Stellantis si prospetta come un’impresa difficile. Resta il fatto che, nel nostro Paese, secondo dati risalenti al 2019, il settore automotive “valeva un fatturato di 93 miliardi di euro, pari al 5,6% del Pil, con 5.700 imprese e 250.000 occupati, pari al 7% dell’intera forza lavoro dell’industria manifatturiera italiana (fonte Anfia)”. Mentre “nel solo comparto della fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, operano oltre 2.000 imprese con 180.000 lavoratori, pari all’11% del totale degli addetti metalmeccanici”. Imprese che, peraltro, producono circa il 16% delle esportazioni metalmeccaniche e il 7% del totale delle esportazioni nazionali (elaborazioni dell’Osservatorio Federmeccanica, Fim, Fiom, Uilm su dati Istat).
Insomma, vale sicuramente la pena di iniziare una discussione pubblica sulle sorti di questo settore. E da qualche parte bisognerà cominciarla. Sindacati e imprese hanno parlato. Adesso, la prossima mossa dovrebbe toccare al Governo. Anzi, al capo del Governo, Mario Draghi.
@Fernando_Liuzzi