Nelle elezioni regionali in Emilia Romagna non c’è partita. Con questo giudizio tranchant non voglio intendere che uno dei due canditati alla carica di Governatore (Stefano Bonaccini, Pd, presidente uscente e sostenuto dal centro sinistra versus Lucia Borgonzoni, senatrice della Lega, in corsa per il centro destra) ha già in tasca la vittoria. La mia è una constatazione di fatto: non c’è partita perché le due squadre non si cimentano sul medesimo campo e non partecipano allo stesso campionato.
Ogni squadra palleggia da sola in campi diversi in attesa che si presentino gli avversari, i quali per ora hanno compiuto solo delle sporadiche apparizioni; dopo di che i giocatori con la maglia a strisce verdi e nere sono ridiscesi negli spogliatoi. Fuor di metafora e in attesa (sarebbe meglio scrivere ‘’a prescindere’’) di ciò che faranno i ‘’5stelle’’, il grande paradosso emiliano sta tutto qui. Stefano Bonaccini sostiene – correttamente – che, essendo l’elezione del 26 gennaio 2020 di carattere regionale, ci si deve confrontare con i problemi locali e giudicare la linea di condotta del Governatore uscente.
E quindi vuole portare la rivale su questo terreno, dove vincerebbe sicuramente, perché Bonaccini è consapevole (e tutti glielo riconoscono) di aver lavorato bene, mentre chi voterà Borgonzoni lo farà turandosi il naso. Non ci riesce, ma non può fare altrimenti, anche se il destino gli ha imposto di condurre una battaglia diversa, che è fuori dalle sue forze e dalla sua portata. In sostanza, il 26 gennaio non si deciderà quali forze governeranno la regione nei cinque anni successivi. Mi azzarderei persino a dire che questo problema non interessa quasi a nessuno, essendo l’Ente regione l’istituzione più lontana dai cittadini.
Diversamente dal sindaco che sta in prima linea e dal presidente del Consiglio che tiene in mano il timone della nave (ricordate Bettino Craxi e il suo ‘’la nave va’’?), il Governatore è un personaggio che rimane tra le quinte, la cui attività sfugge ai cittadini, anche perché i meriti e i demeriti della sua politica vengono comunque attribuiti al sindaco o al premier. Questa analisi viene confermata dall’affluenza degli elettori in occasione delle consultazioni regionali. Quando le regioni, per molti anni, votavano in blocco lo stesso giorno (nella gloriosa e stabile Prima Repubblica), le percentuali dei votanti erano più o meno quelle delle elezioni politiche, perché la consultazione era considerata di carattere politico.
Quando il rosario delle scadenze ha cominciato a sgranarsi, anche i tassi di partecipazione sono diminuiti. Persino in Emilia Romagna, nella tornata precedente, ha votato meno del 38% degli avanti diritto. Mi si dirà che il caso recente dell’Umbria ha un segno contrario. E’ vero, ma la ragione prevalente di questo maggiore afflusso è dovuto alla caratteristica di competizione nazionale (la conferma o meno del ribaltone di agosto) che quel voto aveva assunto. Quale è la posta in gioco in Emilia Romagna, allora? La campagna elettorale è condotta in prima persona da Matteo Salvini. Il Capitano chiede agli elettori il loro suffragio in nome di un obiettivo che con la regione, direttamente, non c’entra nulla. Per lui la vittoria nella (ex?) regione rossa sarebbe un colpo mortale inferto agli avversari, da cui deriverebbe – è quasi certo – il ricorso alle elezioni anticipate e il trionfo del centro destra a trazione salviniana. In sostanza, la squadra del Truce è in campo per vincere il campionato di serie A, e, in quella partita – sul piano degli argomenti del confronto – gli avversari sono muti.
A Bologna, nei giorni scorsi, si è persino svolta una Convention del Pd che, anziché aiutarlo, ha creato problemi a Bonaccini, il quale, se potesse, vorrebbe liberarsi dal ruolo che gli è stato assegnato e che non si sente in condizione di affrontare; e non per incapacità o per altri motivi, ma semplicemente perché la posta in gioco è quella messa in palio dal leader della Lega. Gli elettori emiliano- romagnoli ne sono consapevoli. E il 26 gennaio voteranno pro o contro Salvini. Gli unici che hanno capito tutto sono i militanti del movimento delle Sardine. E’ un alibi sostenere che non basta essere ‘’contro’’ ma che bisogna anche fare anche delle proposte. La sinistra si illude di poter recuperare le vecchie glorie, recuperando le altrettanto vecchie politiche tradizionali. La destra populista ‘’non sta dalla parte dei padroni’’, non è una classica destra conservatrice, ma ha fatto proprie talune istanze della vecchia sinistra: è una destra ‘’sociale’’, peronista, disponibile a tutte le avventure pur di conquistare e mantenere il consenso. Anche a costo di mandare a gambe all’aria il Paese (la polemica sul MES è scandalosa, ma dimostra di che cosa sono capaci).
La sinistra vuole parlare di salari, di pensioni, di lotta alla povertà, di tasse? Lo facciano pure. Ma prima devono disboscare, se ci riescono, le piante che gli avversari hanno piantato nel terreno e far capire che sono carnivore. ‘’Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo – scrivono nel loro Manifesto le Sardine – avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare’’. Sembrano le parole di Emmanuel Macron rivolte alle forze sovranpopuliste nel suo discorso alla Sorbona: ‘’ Si dicono legittime perché sfruttano con cinismo la paura dei popoli. Troppo a lungo abbiamo ignorato la loro potenza. Troppo a lungo abbiamo creduto con certezza che il passato non sarebbe tornato, che la lezione fosse acquisita’’. Ecco perché Matteo Salvini (ovviamente per ciò che rappresenta) non va combattuto per quello dice o fa, ma per quello che è. Altrimenti – se non si riesce (e nemmeno si prova) a convincere gli elettori che questo è il problema – la partita è persa.