Sono mesi, ormai, che, attraverso i mezzi di informazione, l’opinione pubblica è bombardata di cifre sull’andamento dell’occupazione nel nostro paese. Cifre che si rincorrono, si accavallano, si smentiscono a vicenda e, alla fine, lasciano il cittadino quanto meno perplesso. Funziona il Jobs Act? E i disoccupati sono aumentati o diminuiti? Vacci a capire qualcosa. Anche perché le fonti da cui proviene questo profluvio di dati non solo sono tre – e cioè Istat, Inps e Ministero del Lavoro –, ma si occupano di universi non coincidenti e lo fanno seguendo metodologie diverse.
Questo se, navigando nell’attualità, si cerca di capire qualcosa di quello che accade giorno per giorno. Ma se si fa come oggi ha suggeritola Cgil, e si guarda a tendenze di più lungo periodo, allora il quadro è assai più chiaro.
Ci riferiamo alle cifre che sono state ricordate da Danilo Barbi nella relazione – tenuta al convegno svoltosi oggi, a Roma, presso la sede nazionale della Cgil – con cui ha presentato la proposta intitolata “Un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile”. Ecco dunque: In Italia negli anni della crisi, e cioè dal 2008 al 2015, “si contano 1,6 milioni di posti di lavoro in meno”. Nello stesso periodo, gli investimenti fissi privati sono crollati del 30%, mentre gli investimenti pubblici sono scesi del 27,8%. Il Pil reale nel 2015 è inferiore di 8,3 punti rispetto al 2007, pari a 140 miliardi di euro in meno. Ancora nel 2015, l’area di “sofferenza e disagio” del lavoro (disoccupati; scoraggiati disponibili a lavorare; lavoratori in Cassa integrazione; partire Iva a basso reddito; lavoratori precari e part time a basso reddito) comprende 9,3 milioni di persone (+ 3,7 milioni rispetto al 2007).
Ebbene, per affrontare tutto questo, ci vuole non solo qualcosa di più, ma qualcosa di diverso da quanto si è fatto sin’ora. “Il carattere strutturale e di lungo periodo della crisi – ha detto Barbi – la profonda depressione sociale ed economica che ancora attanaglia il Paese, richiedono una terapia shock che mobiliti energie e risorse straordinarie.” In sostanza, ha scandito il dirigente sindacale, responsabile economia nella segreteria nazionale Cgil, “si tratta di creare direttamente lavoro per far ripartire la crescita; si tratta di ridurre la disoccupazione giovanile e femminile, intaccando il serbatoio di inattività che era già un problema di fondo del Paese prima della crisi”.
Come raggiungere questi obiettivi? “L’idea generale – ha spiegato ancora Barbi – è quella di creare nuova domanda (aumento dell’occupazione, del monte salari, dei consumi e degli investimenti) promuovendo, contemporaneamente, nuova offerta (nuovi settori di attività economica, nuovi consumi collettivi, nuove professionalità) per lo sviluppo futuro”.
Idea ben sintetizzata in questa formula, scandita ancora da Barbi: “Produzione di lavoro a mezzo di lavoro”. Il che significa, se ben comprendiamo, che secondola Cgilnon si tratta di fare una politica economica che, agevolando oggi le imprese, possa portare domani a risultati politicamente auspicabili, quali una lenta risalita dell’occupazione. Si tratta di spingere all’azione diretta quello che l’economista Laura Pennacchi, nel suo intervento, ha definito “l’operatore pubblico”. In altre parole, lo Stato.
Il piano straordinario della Cgil, che costituisce – assieme – una specificazione e un rilancio del suo Piano del Lavoro, presentato originariamente nella Conferenza di programma del gennaio 2013, prevede, come primo passo, la costituzione di una Agenzia nazionale. Agenzia che dovrà gestire le risorse “in rapporto con i territori” e “seguendo i temi di intervento indicati dal Piano”.
Dopodiché, per “produrre lavoro”, il piano prevede un totale di 600mila assunzioni così ripartite;
a) assunzione a tempo indeterminato di 20.000 ricercatori (per: energie rinnovabili, rifiuti, riutilizzo materiali, ecc.);
b) assunzione a tempo indeterminato di 100.000 lavoratori nella Pubblica amministrazione (per: integrazione digitale della P. A., aumento prestazioni diagnostica sanitaria, progetti didattici contro dispersione scolastica);
c) 300.000 contratti straordinari di 3 anni + 3 (per: prevenzione antisismica, manutenzione territorio e bonifiche, ristrutturazione abitazioni, educazione permanente, strutture sociali per infanzia e anziani);
d) 100.000 mila contratti triennali (per: beni culturali e archeologici, implementazione tecnologica e informatica nella fruizione del patrimonio culturale, diffusione cultura digitale, lingua italiana per migranti);
e) 60.000 occupati in nuove cooperative giovanili e femminili (per: agricoltura biologica, agriturismo, produzione culturale, tutela del territorio e della forestazione);
f) 20.000 occupati in nuove imprese giovanili (per: risparmio ed efficienza energetica, creazione dispositivi tecnologici per il territorio, housing sociale).
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Come si vede, si tratterebbe della creazione diretta di 520.000 posti di lavoro nel settore pubblico, cui potrebbero aggiungersi 80.000 posti di lavoro privati ottenuti grazie a varie agevolazioni rivolte alle cooperative e alle imprese giovanili sopra richiamate. In altri termini, ha osservato ancora Barbi, si tratterebbe di 200.000 posti di lavoro a tempo indeterminato (compresi gli 80.000 nel settore privato) più 400.000 assunzioni a progetto nel settore pubblico.
Secondo i calcoli della Cgil, la spesa necessaria a realizzare il Piano straordinario è pari a circa 10 miliardi di euro all’anno, ovvero a circa 30 miliardi in un triennio. Ma non sarebbero soldi buttati via. Infatti, i benefici dell’applicazione del piano sarebbero molteplici. Primo, 600.000 nuovi occupati percettori di redditi regolari, e perciò 600.000 nuovi consumatori paganti imposte dirette e indirette. Secondo, nuovi investimenti pubblici, con impatto diretto sulla domanda aggregata. Terzo, crescita della domanda di beni prodotti dai settori coinvolti, dall’edilizia all’industria manifatturiera.
In sostanza, l’attivazione dei 600.000 posti di lavoro previsti dal Piano straordinario potrebbe generare, come effetto indotto, la creazione di altri 750.000 posti di lavoro. In definitiva, in un triennio tutto ciò potrebbe “determinare una crescita cumulata di 5,7 punti di Pil reale, ossia di 186,7 miliardi di euro di Pil nominale in più rispetto alla crescita tendenziale”.
Tutto molto bello. Ma dove prendere le risorse per innescare il Piano? Secondo Barbi, vi sono “diverse possibilità di finanziamento”. Osservando che per il triennio 2015-2017 il Governo ha messo in conto di spendere 34 miliardi fra “decontribuzioni, riduzione strutturale dell’Irap e cancellazione della Tasi per le abitazioni di grande valore”.
La prima di queste possibilità riguarda il cambiamento delle politiche europee, aprendo una vertenza a livello di Unione Europea per chiedere modifiche al Patto di stabilità o, quanto meno, “la sua sospensione per almeno tre anni”.
La seconda possibilità è basata sull’introduzione di una imposta progressiva sulle “grandi ricchezze”. La terza possibilità si basa, invece, sull’ipotesi di realizzare una svolta nella riduzione strutturale dell’evasione fiscale, con la proposta di trasmissione delle fatture Iva all’Agenzia delle entrate via app. Misura che, da sola, potrebbe generare un aumento delle entrate annue fra i 30 e i 40 miliardi.
Passando dalle cifre alle idee che le sottendono, è abbastanza evidente che ciò chela Cgilritiene implicitamente necessario, lanciando questo suo Piano straordinario, è un vero e proprio rovesciamento del paradigma concettuale su cui sono state impostate, in questi anni, le politiche economiche nell’ambito dell’Unione Europea: non si tratta di invocare lo sviluppo, sperando che porti nuova occupazione, ma di creare nuova occupazione, sapendo che potrà innescare un nuovo percorso di sviluppo.
E qui è stato molto utile il già citato intervento di Laura Pennacchi che, in un rapido excursus, ha ripercorso 70 anni di dibattito economico, sottolineando che la bontà delle idee oggi prevalenti nell’Unione europea, su come affrontare la crisi, è stata più volte smentita dalla realtà. E ciò specie rispetto alla questione centrale, che è la difficoltà delle imprese private a darsi programmi di investimento in presenza di una domanda insufficiente.
Il Piano del lavoro lanciato dalla Cgil nel2013, haricordato Gaetano Sateriale nell’intervento introduttivo del convegno odierno, si proponeva di rispondere a questa difficoltà, suggerendo tre direttrici per l’intervento pubblico: “la manutenzione (innovativa) del territorio, l’estensione omogenea di un nuovo welfare (che corrisponda ai nuovi bisogni sociali), e la smart city (vivibilità, servizi, comunicazione, interattività, partecipazione)”. Tre direttrici che, peraltro, riprendevano alcune idee di fondo del primo Piano del Lavoro della Cgil, quello lanciato da Di Vittorio all’inizio degli anni 50.
Oggi queste idee vengono riproposte quale concreto campo di azione su cui agire per combattere la disoccupazione nei due spezzoni sociali in cui è più pesante: fra i giovani e fra le donne. E questa sì, ha concluso Susanna Camusso, che sarebbe una grande riforma. Anzi, come oggi si dice, una riforma strutturale.
@Fernando_Liuzzi