Normalmente non seguo Report, la rubrica del giornalismo d’inchiesta di Rai 3. Lunedì scorso sono stato avvertito di spostarmi su quel canale e seguire la trasmissione in corso in quel momento. Mi sono trovato così ad assistere ad un processo alla Cisl nel quale veniva affrontato anche il ‘’caso Bentivogli’’ a proposito del quale mi ero permesso di sollevare delle critiche nei confronti della segreteria confederale.
Non ho idea di come il gruppo dirigente della Cisl e gli iscritti abbiano reagito a quella trasmissione. Al loro posto eviterei di darvi importanza, dal momento che sono tanti gli scandali artefatti che sfioriscono, nell’attenzione dell’opinione pubblica, nel tempo di una rosa. Preferisco raccontare una diretta esperienza che mi ha reso molto perplesso e sospettoso con riguardo alla obbiettività di quella trasmissione, visto che ne sono stato vittima e a lungo nell’impossibilità di esporre le mie ragioni e ristabilire la verità dei fatti.
Come nei romanzi di cappa e spada è necessario fare un passo indietro, ritornando all’epoca in cui, nella XVI legislatura, ero deputato e vice presidente della Commissione Lavoro. Mi capitò di ricevere una telefonata da un giornalista di Report (di cui non ricordo il nome) il quale, citando un mio progetto di legge, mi chiese un’intervista per parlare, a suo dire, di alcuni aspetti che aveva trovato interessanti. Così, una volta acceso il falò della vanità, prendemmo appuntamento e teleregistrammo l’intervista. Il mio interlocutore partì da lontano. Mi chiese se avevo insegnato diritto della previdenza sociale all’Università. Io confermai di aver avuto un contratto per quattro anni con l’Ateneo bolognese, di aver laureato una trentina di studenti e quant’altro. Poi passò a domandarmi quali altre esperienze precedenti avessi compiuto in campo previdenziale, sia con pubblicazioni che in qualità di presidente del Collegio dei sindaci dei maggiori Enti.
Dopo il saccheggio (strumentale) del mio curriculum saltò fuori la trappola: la Camera, nella legge n.122 del 2010, ha votato una norma che imponeva la ricongiunzione onerosa dei contributi previdenziali, anche nei casi in cui prima era gratuita. Perché io, da esperto della materia, non l’avevo impedito? Preso in contropiede, provai a spiegare i fatti. Quella norma non era contenuta nel testo iniziale del decreto che la mia Commissione aveva esaminato per esprimere un parere consultivo. Venne inserita, in un passaggio successivo, con un emendamento del governo in Commissione Bilancio ed era finita in un maxiemendamento su cui, in Aula, fu chiesta e votata la fiducia. Anche volendo non avrei avuto nessuna possibilità di intervenire e di modificare la situazione. Inoltre un esperto di previdenza non è un mago e non è in grado di risalire in pochi minuti a quali effetti economici può produrre una norma in materia di pensioni (i dati – il numero di pensioni coinvolte, ecc. – li conoscono gli enti previdenziali interessati e la Ragioneria generale, la quale, con la dei testi, condiziona il processo legislativo, perché il suo sì lo fa procedere, il suo no lo blocca). In quel caso, nella relazione tecnica della Ragioneria era scritto che non erano prevedibili gli effetti economici e quindi non venivano conteggiati.
In sostanza, quell’emendamento (confermato al Senato col voto di fiducia) fu un vistoso errore e creò non pochi problemi a lavoratori che, durante la vita lavorativa, erano stati iscritti a diverse gestioni, i quali si trovarono, a dover ricongiungere all’improvviso e in modo (talvolta parecchio ) oneroso tali periodi per poter maturare i requisiti sufficienti per la pensione. Tutta questa vicenda, nell’intervista, veniva caricata su di me, reo di non aver impedito che ciò avvenisse nonostante la mia dichiarata competenza.
Mi premurai allora di dimostrare che, subito dopo quel voto “al buio”, mi ero dato da fare per porre rimedio a tale problema. Una mozione a mia prima firma era stata votata all’unanimità dalla Assemblea; un mio progetto di legge, unificato con quello di altri, era stato approvato dalla Commissione Lavoro ed era fermo in Commissione Bilancio era emersa l’esigenza di una copertura finanziaria di circa 400 milioni l’anno. Per non parlare degli emendamenti infilati inutilmente in altri provvedimenti. Il video con spezzoni della mia intervista finì sul Corriere on line (ovviamente tagliando ogni possibile riferimento) fu ripreso da un articolo di Milena Gabanelli sullo stesso giornale il lunedì successivo. Una mia lettera al direttore che spiegava come erano avvenuti i fatti non venne neppure presa in considerazione.
Così divenni oggetto di mail di ogni tipo e di commenti velenosi, anche nei talk show, che accompagnavano la diffusione dell’articolo e del video del Corriere (credo anche della puntata televisiva). A persone incarognite perché l’inopinata richiesta di sborsare un sacco di soldi per la ricongiunzione di periodi contributivi che prima avveniva in modo gratuito, fu raccontato, con tanto di immagini e commenti, che la colpa dei loro guai era mia, soltanto perché ero un esperto di pensioni e facevo parte di maggioranza brutta e cattiva. Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, che avevano introdotto quella norma, in sede di conversione del decreto, venivano appena nominati. Su 630 deputati (magari solo sui 316 della maggioranza di centro destra) io ero il solo responsabile. Nei mesi successivi, insieme alla collega del Pd Maria Luisa Gnecchi, convincemmo il ministro Elsa Fornero che quella norma non correggeva alcun privilegio, ma era frutto di un errore che andava superato. Per farlo, però, occorreva trovare la copertura finanziaria, in tempi in cui non esistevano i ripetuti scostamenti di bilancio, ma veniva praticata la politica della lesina. E quindi fu necessario andare avanti passo dopo passo fino a risolvere del tutto il problema nelle legislature successive.
Mesi dopo la redazione di Report si rese conto di averla fatta grossa e mi rifece una intervista nella quale mi fu concesso di spiegare la vera dinamica dei fatti. Più o meno la stessa cosa di quando si pubblica un trafiletto relativo all’assoluzione in giudizio di un colpevole della macchina mediatico-giudiziaria.
Giuliano Cazzola