E’ tornata l’inflazione. Alla fine del 2021 era stato registrato un aumento dell’1,9%, il mese dopo, gennaio 2022, i prezzi sono cresciuti mese su mese dell’1,6% e del 4,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Chi ha vissuto gli anni 80 si è sentito tremare i polsi, il ricordo dell’inflazione al 20% e della battaglia per tagliare la scala mobile deve essere stato devastante. Adesso la situazione è diversa e poi non è nemmeno sicuro che ci sarà una crescita forte e continua dei prezzi: gli ottimisti, e ci sono, pensano ancora che siamo in presenza di un assestamento dovuto a fattori esogeni, come la crescita dell’energia e la crisi dei componenti, fattori che non vanno certo sottovalutati ma nemmeno esaltati. Ma anche se la situazione è ancora sotto controllo, o comunque non ci sono ancora sufficienti indicazioni per delineare uno scenario credibile, le polemiche sono già partite.
Alessandro Genovesi, che guida gli edili della Cgil, sul nostro giornale ha affermato di avvertire i sentori di una crociata contro i contratti collettivi: gli ambienti industriali, che tra qualche mese verranno impegnati in una intensa stagione di rinnovi contrattuali, comincerebbero, a suo avviso, a studiare le contromosse nei confronti di una temuta e forte richiesta salarialista da parte del sindacato. Del resto, le guidelines che finora hanno diretto la crescita salariale, soprattutto le indicazioni del Patto per la fabbrica, l’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil del 2018, a qualcuno cominciano a stare strette. Pierpaolo Bombardieri, il segretario generale della Uil, ha affermato senza mezzi termini che quell’accordo non esiste più, è carta straccia. Questo perché quell’intesa, e anche tutte le precedenti strette da sindacati e imprese negli ultimi dieci anni, prevedono che i salari crescano come l’inflazione, ma senza calcolare gli aumenti dei prezzi dovuti alla crescita dei costi esogeni dell’energia, quelli causati all’esterno e importati nel nostro paese. E’ la logica dell’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato, che alla Uil non piace più.
Una presa di posizione anomala, perché forse non conviene a nessuno rinunciare, a freddo, a un accordo che per lo più finora ha funzionato bene, e che conteneva indicazioni per il futuro delle relazioni industriali molto interessanti, soprattutto lungimiranti. Che la prospettiva di una crescita dell’inflazione spaventi è fuori dubbio. Negli ultimi anni la lamentela corrente era che l’inflazione era troppo bassa, nel 2021 c’è stata perfino una decrescita dei prezzi dello 0,2%. Una realtà pericolosa, perché in periodi di bassa inflazione i consumi stagnano pericolosamente, ma anche gli investimenti tendono al ribasso dato che manca la spinta al mercato, depresso. Adesso il fenomeno si sta capovolgendo, ma fa ancora più paura perché anche in presenza di una crescita impetuosa dei prezzi i consumi non potrebbero non decrescere, e l’economia risentirne pesantemente. E nessuno dimentica che l’inflazione è fenomeno altamente ingiusto perché colpisce più di tutti i lavoratori e i pensionati, in generale i redditi fissi, che hanno difficoltà a recuperare quanto perso con l’aumento dei prezzi al consumo. I meccanismi automatici di recupero del potere di acquisto non esistono più, gli odiosi automatismi sono stati cancellati, adesso questo recupero è affidato solo alla contrattazione, che appunto non ha nulla di automatico. I contratti collettivi, quelli nazionali, ma anche quelli di secondo livello, aziendali o territoriali che siano, normalmente fanno crescere i salari, ma arrivano quando e se le parti sociali, imprese e sindacati, trovano un accordo; ma non è detto che ci riescano e, soprattutto, che vogliano riuscirci.
Di qui i timori di Genovesi di un rallentamento della contrattazione: pericoloso, in questo momento, perché sono a scadenza quasi tutti i grandi contratti dell’industria. Sarebbe la cancellazione di tutti gli sforzi compiuti in questi anni per far compiere alle relazioni industriali un salto di qualità. Sarebbe l’inversione di una tendenza positiva che, invece, sta materializzandosi proprio in questi mesi. Per capire cosa non dovrebbe accadere basta fare riferimento a come si sono comportante le parti sociali nelle telecomunicazioni e nella metalmeccanica. Nel mese di ottobre le imprese delle Tlc e sindacati di settore, secondo quanto stabilito dal contratto, dopo aver analizzato assieme l’andamento del settore, hanno messo a punto gli interventi da compiere e li hanno indicati al governo trovando piena attenzione dell’esecutivo, che si sta muovendo di conseguenza. Lo stesso hanno fatto le parti sociali metalmeccaniche in tema di automotive: hanno studiato assieme come intervenire e hanno stilato un documento che è stato presentato al governo; dove, sembra, ha lasciato profonda eco, perché l’esecutivo ha potuto comprendere fino in fondo, grazie appunto a questo sforzo congiunto, la profondità e la vastità della crisi di questo settore, centrale nel panorama industriale del nostro paese.
E’ così che si deve agire. Sono le parti sociali, appunto le aziende e i rappresentanti dei lavoratori, che conoscono i settori, sanno come muoversi, ma spesso hanno bisogno dell’aiuto e della guida delle autorità di governo per arrivare a risultati coerenti. I contratti nazionali sono stati costruiti in questi anni in questa direzione, per cogliere questi risultati e il Patto per la fabbrica proprio questi comportamenti ha premiato. Cambiare strada potrebbe essere pericoloso e inutile. lo stesso si può, forse si deve fare per combattere la crescita abnorme dell’inflazione. Del resto le parti sociali per venti anni si sono scontrate sul tema della lotta all’inflazione, fino a debellarla: perché affidare il compito di combattere questo fenomeno a qualcun’altro?
Massimo Mascini