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E se Pomigliano non fosse poi così importante? O, almeno, non così tanto da occupare, come invece è successo, per giorni le prime pagine dei giornali? O da essere additato a paradigma delle relazioni sindacali italiane?
La vicenda è, addirittura, diventata il metro di misura delle culture politiche. Il Governo, in verità, si è sottratto dall’intervenire fino alla fine, quando sembrava che sparisse la Panda. Contrariamente ad una certa polemica politica che ha invocato un maggior interventismo della politica, penso invece che quest’ultima abbia fatto bene a restare defilata. E’, infatti, anche troppa la invadenza sulle questioni del lavoro, che andrebbero restituite in toto alla autonomia negoziale delle parti. Ma, il Governo non si è sottratto di dire la sua al momento del Referendum: la trasmissione domenicale della Annunziata col confronto diretto tra Sacconi e Landini ha portato almeno un 5% alla causa del no per la eccessiva sicurezza con la quale il ministro ha affrontato la materia, attribuendogli una sorta di passa non passa della democrazia, provocando, probabilmente, una reazione negativa anche tra una parte di coloro che condividevano l’accordo. Un altro 5% di no va attribuito, a mio avviso, alle dichiarazioni di Marchionne quando ha chiesto il 90% dei consensi: si sa che non bisogna mai stravincere…
Il sovraccarico di politica che comunque c’è stata è, però, la prova di una anomalia. E’ da trent’anni, dalla vertenza dei licenziamenti a Torino e dalla marcia dei 40 mila del 1980 che alla Fiat viene attribuito un ruolo egemonico sulle vicende industriali italiane.
Ma è davvero la Fiat il banco di prova delle sorti del lavoro e dell’industria Italiana?
Il protagonismo è, ovviamente, in buona parte giustificato. Non sfugge, infatti, ad alcuno e tantomeno a chi come me ha fatto il sindacalista per una vita, per giunta per molto tempo nei metalmeccanici (per ben nove anni ho avuto la responsabilità nazionale del settore automobilistico), il peso oggettivo del colosso dell’auto, dei motori, dei veicoli commerciali, delle macchine movimento terra, della componentistica… la prima vera multinazionale italiana. Non sfugge la sua ramificazione territoriale che progressivamente è diventata sempre più rilevante al Sud; la ferrea struttura organizzativa interna; il blasone della famiglia Agnelli, che ha occupato uno spazio ben più ampio di quello industriale, in particolare nella persona dell’Avvocato; gli sconfinamenti in politica e quant’altro lega il nostro Paese a questa saga tanto da far coniare lo slogan esagerato secondo il quale quel che è bene per la Fiat è bene per l’Italia.
Forse è proprio da questo mastodontico equivoco che trae origine anche quello che fa della Fiat il luogo del destino sindacale italiano. Si tratta di un grande abbaglio.
Non perché non esista una scuola sindacale Fiat. Per chi la ha conosciuta e praticata è chiaro ed apprezzato il metodo di confronto diretto, essenziale. Trattare con la Fiat vuol dire andare esattamente al cuore dei problemi e ricercare le soluzioni e le mediazioni molto più sul merito che non sul contorno economico sociale. La durezza e la chiarezza della interlocuzione mette alla prova la competenza dei sindacalisti, ma ciò, in molti frangenti, alza il livello della mediazione che non è mai grossolana.
Tutto ciò…quando il negoziato prevale sullo scontro ideologico reciproco. Quando cioè, la Fiat rinuncia all’idea che la sua opinione è la sola in campo o quando il sindacato e la politica rinunciano ad usare questa palestra per fini diversi da quelli propri di tutela dei rappresentati.
Ma è proprio in questo spostamento di asse: dal merito della condizione di lavoro, delle prospettive di sviluppo, alla politica, intesa come propaganda, rappresentanza, potere che va ricercato quell’eccesso di significato che alla Fiat viene riservato.
L’equivoco è stato alimentato anche dall’incontro-scontro, storico, tra il grande capitalismo e la sinistra sindacale e politica. Quest’ultima, soprattutto, come si sa, ha forti radici torinesi e ha sempre subito il fascino, negativo e non solo, della Fiat. Basti ricordare il clamoroso errore politico compiuto da Enrico Berlinguer, dirigente normalmente prudente, quando si presentò ai cancelli di Mirafiori a benedire l’occupazione della fabbrica; o quello, meno grave, ma non indolore, che indusse Lama ed Agnelli a firmare l’accordo per il punto unico di contingenza.
Ma, poiché, nelle relazioni sindacali vale la regola non scritta, ma comprovata, che l’imprenditore ha il sindacato che si merita e viceversa, questo atteggiamento della sinistra ha trovato troppo spesso un alibi nell’approccio aziendale. Può darsi, come molti sostengono, che Romiti, con la scelta del pugno di ferro abbia salvato la Fiat dal declino, ma può anche darsi che la scelta di un nuovo modello aziendale potesse passare per una ricerca di nuove relazioni, non per la sconfitta di tutte le relazioni.
Dieci anni dopo, a Melfi, fu tentato un esperimento relazionale orientato alla partecipazione, fu tentato ed ha avuto successo per un po’ di anni, fino a quando l’acutizzarsi della crisi europea ed internazionale dell’auto non portò la Fiat a privilegiare l’approccio quantitativo a quello qualitativo e non portò, ancora una volta, la sinistra sindacale ad andarle dietro. Ma Melfi ha comunque segnato una svolta e se nell’80 la cultura antagonista era egemone, dopo Melfi il confronto tra l’antagonismo e la partecipazione (entrambi incompiuti!) è diventato esplicito e con pari dignità.
E’ questo salto di qualità – possibile anche per l’insorgere della crisi della visione classista della società – che ha legittimato ciascun soggetto sindacale a firmare accordi anche se non tutte le sigle sono consenzienti, o a non firmare anche se si resta soli a dire no.
Insomma, mentre sino ad un certo punto lo scontro di classe era la regola e chi la pensava diversamente era considerato o un crumiro o assimilato al sindacalismo giallo, da un certo punto in avanti il conflitto tra il capitale ed il lavoro fu una tra le modalità, peraltro sempre meno smagliante, dei rapporti sociali. Nel contempo, infatti, si affermava, anche a fronte delle logiche stringenti della globalizzazione, la strada di un confronto collaborativo tra i soggetti dell’impresa.
Il paradosso sta nel fatto che la cultura partecipativa, che trova come strumento privilegiato un solido approccio contrattualistico-negoziale, ha tratto stimoli proprio da quella cultura del conflitto, che aveva come oggetto l’affermazione del potere del lavoratore. Ma i casi sono soltanto due: o al potere si accede sostituendosi a che ce l’ha o partecipandovi assieme a chi lo detiene, riequilibrandolo. Poiché è del tutto evidente che la prima via, quella rivoluzionaria, è inaccessibile per le ragioni valoriali o culturali che portano i più a rifiutarla; ma, anche, più semplicemente, perché, per altri, non ci sono le condizioni, non resta che la strada della partecipazione.
Se, però, come succede in Italia, la conversione al modello partecipativo non è netta; ovvero, per restare nell’esempio…confessionale: è priva di “piena avvertenza e deliberato consenso”, succede che si resta in mezzo al guado e l’anarchia nel sistema di relazioni sindacali diventa un vortice che assorbe tutti.
Dalla mancata soluzione di questo dualismo ne è derivata una condizione di “sospensione” delle relazioni sindacali che ha portato ad una oggettiva crisi dell’antagonismo, per il prosciugarsi del… brodo di coltura cui traeva stimolo, senza approdare alla partecipazione. Sicché, le relazioni industriali italiane sono da troppo tempo in mezzo al guado ed il rischio di annegare o di essere inghiottiti da sabbie mobili è reale.
A questo rischio il Sindacato ha reagito esasperando le proprie tendenze culturali e, di conseguenza, le proprie posizioni. La divaricazione unitaria parte da questo dibattito rimosso ed incompleto. Da una parte (Cisl, Uil ed gli altri minori) si cerca l’intesa a tutti i costi – e ciò sta, in effetti, nella natura autentica del sindacalismo – ma fino al punto di attribuire all’accordo un significato di gran lunga superiore ai contenuti. E’ l’accordo in sé, cioè, secondo questa visione dei processi, la salvaguardia della esistenza del sindacato, la corda alla quale attaccarsi per non affondare. Al contrario dall’altra parte (la Fiom soprattutto e, in troppi casi, la Cgil Confederale, ma non molte categorie!) si privilegia talmente la “purezza” della linea da rendere di fatto impraticabile ogni compromesso che non sia acquisitivo. Ma, in un periodo di recessione, di crisi produttiva, di riduzione dei margini redistributivi, di caduta del tasso di produttività la linea esclusivamente acquisitiva porta in un vicolo cieco.
Da un lato, dunque, la tesi della “riduzione del danno” diventa ossessiva e, dall’altro, la “tutela dell’esistente” diventa paralizzante.
Nel caso della Fiom bisogna anche aggiungere una annotazione ulteriore. La crisi della sinistra politica, la sua assenza dal Parlamento, la sua irrilevanza sociale, la frantumazione organizzativa e, soprattutto, la separazione di destini tra questa ed il resto della politica, in particolare dal Pd, con l’Idv che cerca di sostituirsi… sta determinando il fatto che l’unico luogo nel quale le diverse sinistre convivono è la Cgil ed in particolare la Fiom, la quale, avendo ben capito questo punto, ha deciso di diventare un contenitore politico trasformandosi, mi pare coscientemente, in un abbozzo di movimento politico sfumando sempre più il proprio profilo sindacale.
Ma l’approccio con il quale la Fiom affronta le questioni sindacali è la regola dei rapporti sindacali o è una eccezione, anche per la Cgil? La risposta è evidente: si tratta di una eccezione. Il problema della Confederazione di corso d’Italia è che in nome della propria unità interna (quella organizzativa, non quella di linea!) non affonda la distinzione creando equivoci interpretativi.
Proprio la vicenda di Pomigliano costituisce un buon esempio di questo aspetto del problema. E’ risultato presto chiaro che la Cgil era per la firma e la Fiom no. Ma la prudenza interna ha portato la confederazione a muoversi troppo tardi. Non intendo per via diplomatica che, presumo, sia stata attivata, ma per quella politica; ad esempio, la intervista di Epifani su Repubblica il giorno della firma, nella quale dava segnali criptici, ma sindacalmente comprensibili di apertura, probabilmente, doveva essere fatta una settimana prima…
Dunque, la opposizione quasi ideologica della Fiom a tutto, o quasi, è una eccezione nel comportamento generale del movimento sindacale italiano. Eccezione che, sia ben chiaro, non solo non va sottovalutata, ma sui cui contenuti conviene sempre riflettere, anche da coloro che non li condividono, perché rappresentano, comunque, un segnale di allarme della condizione del lavoro.
Se però, come abbiamo detto, siamo nel campo della eccezione, è bene che tale rimanga, anche nella attenzione mediatica e nella coscienza politica degli attori.
Perché, invece, assume tutto il significato che gli viene attribuito? La risposta sta nel fatto che la frattura prodottasi nel vissuto collettivo con la vertenza dell’80 non è mai stata sanata per una parte del mondo sindacale e politico, ma soprattutto per una parte del mondo intellettuale e dei media. Si è scritto molto di quella storia, ma come storia a sé e, tutto sommato, si è analizzato poco il contesto esterno, il rapporto che non si è instaurato tra quella storia parallela e quella più generale del movimento industriale e sindacale italiano.
Il giorno in cui Agostino Marianetti si presentò, a nome di Cgil, Cisl, Uil, al direttivo unitario dei metalmeccanici a sostenere la tesi che la vertenza sui licenziamenti andava conclusa, si aprì un dibattito che non è ancora terminato sulla centralità o meno della Fiat per il sindacato italiano.
Lo si aprì perché, mentre una parte interiorizzava quella sconfitta e la scambiava, a causa dell’intreccio sopra esposto, per la sconfitta di tutto il movimento operaio, il resto della categoria (dai siderurgici agli elettrodomestici) avviavano nuovi percorsi nelle relazioni sindacali: la famosa prima parte dei contratti; il protocollo Iri, le sperimentazioni di job, il ruolo crescente degli impiegati e dei tecnici. E, nel resto del movimento sindacale, i chimici avviavano la contrattazione sugli orari, gli alimentaristi sulla filiera produttiva, gli edili sulla bilateralità.
Ma, soprattutto, tutti i grandi processi di ristrutturazione degli anni ’80, massicci ed imponenti, furono gestiti con grandi accordi. Certo ottenuti col conflitto, ma con una filosofia di approccio ben distante dal modello Scargill che tanto somigliava a quello degli intransigenti dirigenti della sinistra piemontese.
Fu proprio questa differenza di linea e l’affermarsi diffuso di una pratica riformista che consentì al sindacato italiano di uscire da quel tormentato periodo con un peso che lo fa ancora oggi essere uno dei più forti (se unito!) sindacati del mondo!
Ma, riprendersi dopo l’80 fu un’impresa molto difficile per tutto il sindacato. Lo sbandamento fu notevole, anche perché impegnati a gestire quella vicenda vi erano dirigenti sindacali della categoria di assoluto valore, tant’è che divennero nel tempo, segretari generali dei metalmeccanici.
A questo proposito, voglio fare una digressione per smascherare un ulteriore equivoco che viene alimentato anche ora in occasione dell’errore compiuto dalla Fiom su Pomigliano, quello cioè che tutto questo antagonismo tragga origine dal genio malefico di Claudio Sabattini. Niente di più falso. O, per meglio dire, che Claudio alimentasse antagonisti è vero e che la nidiata dei “piccoli sabattini crescono” fosse, e sia tutt’ora, l’esasperazione di una lucida impostazione politica e sindacale conflittuale da lui coltivata e praticata è ben vero, ma, vivaddio, Sabattini era un sindacalista autentico e la sostanziale, ma decisiva differenza tra lui e alcuni degli eredi è che lui gli accordi li faceva, li cercava (anche nell’80!) e li firmava. Li faceva soffrire, li stressava a fini politici e di affermazione di ruolo della propria organizzazione e del sindacato, li portava all’eccesso nella ricerca del risultato… ma non se li lasciava sfuggire. Con me, ironicamente, si vantava di essere un…moderato, nel senso etimologico della parola: est modus in rebus… e, forse, non era solo ironia. Inoltre, era uno che chiamava sconfitta la sconfitta e da lì ripartiva.
Ma, tornando a noi, la tesi che voglio proporre con questa riflessione – che definirei… a margine della vertenza di Pomigliano, ma, a me sembra, cruciale per coglierne il significato e gli ambiti – non è tanto sul merito dell’accordo, che avrà un suo destino (per far rientrare una Fiom che scalpita per esserci di nuovo sarebbe sufficiente una clausola interpretativa, senza modifica del testo dell’intesa sottoscritta…), quanto nel fatto che siamo di fronte ad una vicenda industriale sui generis. Sui generis non perché il contenuto sindacale non sia esportabile: se guardo alla condizione del lavoro di tante piccole e piccolissime aziende, quello che a Pomigliano sembra una inaccettabile concessione costituirebbe, per migliaia di lavoratori, una garanzia ed un miglioramento. Mentre proprio la specificità di Pomigliano, basta ricordare le pesanti infiltrazioni malavitose, la rendono di difficile esportazione anche nelle clausole più spinose dell’intesa.
Sui generis non perché non esista un problema di competizione internazionale che comporta i rischi di vere e proprie “aste” per la scelta di collocazione degli impianti; questione decisiva di politica industriale che la direttiva Bolkestein non ha risolto, anzi…
Bensì, sui generis perché non è così che si muovono le imprese ed i sindacati nella quotidianità delle loro vicende. Eppure è così che la vedono i media, che alimentano la idea dell’operaio come mito. Quando era forte veniva mitizzato o temuto, ora che è debole viene compianto e protetto. “La riscoperta delle tute blu”, “il ritorno della classe operaia” era il tenore dei titoli di tutti i quotidiani e dei tg di quei giorni di Pomigliano.
Ma, qualche milione di operai ogni giorno si reca al lavoro, con gli orari dei turni che oggi arrivano anche nello stabilimento Napoletano; con mezzi di trasporti lontani anni luce dalla Italia dell’alta velocità; con retribuzioni troppo basse e tasse troppo alte; con problemi occupazionali crescenti che incidono sulla qualità della vita della famiglia media italiana. Perché di ceto medio si tratta, o meglio, come dice Magatti, di ceti popolari. Ovvero quell’indistinto mondo che non distingue più tra l’operaio, l’infermiere, il maestro, l’impiegato…tutti accumunati da una condizione da “penultimi”.
E’ su questa condizione reale e sulle conseguenze pratiche ed identitarie che la sinistra, il centro sinistra, i sindacati, i progressisti…i riformisti, insomma, dovrebbero riflettere di più. Il centro destra lo ha fatto e ha dato le sue risposte, sbagliate molto spesso, anche se non sempre, ma risposte. In una realtà, come ad esempio il nord est, dove il 60% degli imprenditori erano operai e dove la media è di aziende con una manciata di dipendenti, che se non sono parenti sono amici, non ci vuole molto a capire quanto irreale possa apparire la discussione avvenuta attorno alla vicenda di Pomigliano, della Fiat…imperiale, del sindacalismo antagonista.
In definitiva, senza nulla togliere alla delicatezza ed alla importanza del problema affrontato, della Storia e del peso dell’azienda, la vera lezione che ricaviamo dalla vicenda di Pomigliano e da molte altre che coinvolgono la Fiat è che non è questo il laboratorio nel quale si costruisce il futuro delle relazioni industriali italiane.
Pier Paolo Baretta