Rattrista la morte di Giorgio Squinzi. Perché incarnava quella tipologia di imprenditori che dal nulla era salito piano piano nella scala dei valori umani, rendendo grande la sua azienda, portandola in tutto il mondo, realizzando con le sue maestranze un rapporto fortissimo. Ricordava un altro grande presidente di Confindustria Luigi Lucchini, che era partito anche lui dal nulla, girando le campagne in bicicletta per comprare rottami di ferro e alimentare il suo piccolo forno ed era arrivato a presiedere un grande gruppo industriale, lodato e invidiato in tutto il mondo.
Ma Squinzi va ricordato anche per il ruolo che ebbe in Confindustria negli anni della sua presidenza. In linea di principio chiunque si getti in un’avventura del genere, per il bene della collettività, dei suoi colleghi in questo caso, merita la stima generale, perché dimostra di saper guardare lontano, di non fermarsi ai piccoli interessi. E del resto non si diventa un grande imprenditore se non si getta lo sguardo, e il cuore, oltre l’ostacolo. Squinzi fu un grande presidente di Confindustria, perché seppe pacificare le relazioni industriali dopo un periodo molto turbolento, che ne aveva messo a rischio forse non la sopravvivenza, ma certo la grandezza.
Prima di Squinzi in Confindustria c’era Emma Marcegaglia, che avrà avuto anche grandi meriti, ma aveva aperto una frattura con il più grande sindacato, causando così molto male alla compagine confindustriale. L’accordo del gennaio del 2009, che aveva cambiato le regole della contrattazione, ma non aveva colto il consenso della Cgil, era stato un vero vulnus per le relazioni industriali, perché le regole del gioco si stabiliscono sempre con tutti i giocatori, altrimenti alla lunga, spesso nel breve periodo, rendono la vita impossibile a chi quelle regole deve applicare.
Nel 2009 stava per accadere proprio questo, le relazioni industriali, dopo il no alle nuove regole da parte della Cgil di Guglielmo Epifani, si stavano bloccando, perché sembrava impossibile riuscire a firmare i rinnovi dei contratti nazionali, tutti in scadenza, senza entrare in rotta di collisione con la Cgil. Sarebbe stato il Far West se gli attori delle relazioni industriali non si fossero dimostrati di grande levatura, inventandosi delle formule strane per firmare gli accordi ciascuna parte affermando di avere o non avere applicato quelle nuove, non condivise regole.
Poi arrivò Squinzi e mise fine a questi interminabili problemi. Riprese i rapporti con la Cgil, stabilì, d’accordo con tutti, nuove regole, pacificò il campo. Non è un caso se ci riuscì, dato che veniva dal campo felice dei chimici, la categoria che vanta a ragione il primato dell’inventiva e della capacità negoziale in campo contrattuale. I contratti dei chimici si sono sempre, da decenni, firmati prima della scadenza e senza un’ora di sciopero. E non sono stati contratti facili o tradizionali, hanno innovato profondamente le regole, hanno stabilito nuovi rapporti, spesso anche contro le indicazioni di Confindustria, che spesso e volentieri bocciava sonoramente i rinnovi contrattuali dei chimici per poi applicarne le regole dopo poco tempo. Squinzi era stato presidente di Federchimica per tanti anni, aveva introiettato quelle abitudini al dialogo, al rispetto reciproco, al riconoscimento delle esigenze altrui. Non è un caso se non ha mai licenziato nessuno dei suoi dipendenti, era fuori dal suo modo di pensare. E se c’era da tirare la cinghia era il primo a farsi avanti.
Purtroppo la sua elezione in Confindustria non fu cosa piana, arrivò alla presidenza dopo una durissima battaglia con un altro grande campione imprenditoriale, Alberto Bombassei, il patron di Brembo, che finì più con un pareggio che con una vittoria, perché Squinzi prevalse solo per qualche voto e questa divisione rimase forte in Confindustria per tutto il suo quadriennio, nei fatti indebolendolo. Se avesse avuto con sé, come meritava, tutta la Confindustria avrebbe potuto fare molto di più e forse adesso la confederazione degli industriali sarebbe meno debole di quanto, purtroppo, sia. La speranza è che di uomini della levatura di Giorgio Squinzi ne vengano ancora.