Tutta colpa di Lenin, assicura Putin. Non fosse stato per il padre della rivoluzione comunista, l’Ucraina neanche esisterebbe, separata dalla Russia. E non sarebbe stato inserito, nella Costituzione del 1924, il diritto delle repubbliche sovietiche alla secessione, che poi attueranno davvero settant’anni dopo. Lenin, infatti, era un rivoluzionario internazionalista e Putin il suo esatto contrario. Un diplomatico ha definito l’attuale presidente russo “un politico del XIX secolo che agisce nel XXI”. E, in effetti, c’è più di un’eco ottocentesca nella brutale rivendicazione del proprio nazionalismo (russo) a negazione di quello altrui (ucraino, nel caso). Il calcolo politico-mediatico di un appello all’orgoglio russo, probabilmente, neanche c’entra. L’impressione è stata che Putin, nel suo ultimo discorso, per una volta, parlasse con il cuore. E questo rende il compito di spegnere in tempo una guerra dell’800 all’epoca delle testate nucleari tremendamente complicato.
Le prime vittime delle scaramucce e delle manovre dei cingolati alle frontiere sono, naturalmente, gli ucraini, sull’orlo di una tragedia. Subito dopo, veniamo noi europei, italiani in particolare. Parlare di tragedia sarebbe parola grossa. Forse anche dramma è fuori luogo. Ma è uno choc vedere un luminoso avvenire ingoiato da tempi bui. Non bastassero, infatti, le paturnie (malumore unito a stizzosa irritazione, le definisce il dizionario) di Mario Draghi per una maggioranza impegnata nella versione parlamentare dello schiaffo del soldato, le grandi speranze di un rilancio del paese rischiano ora di inabissarsi sulle sponde della Moscova, sotto l’occhio del Cremlino. L’Italia ha, infatti, un bisogno disperato che il Pnrr, il piano di rilancio da oltre 200 miliardi di euro, varato con l’Europa, funzioni, per riportare il paese ai livelli di produttività e di efficienza degli altri paesi, dopo trent’anni di ristagno. Ma, per funzionare, il Pnrr ha bisogno di una economia che marci spedita, garantendo investimenti e riduzione del debito, alimentando la fiducia, allungando le prospettive.
Anche solo le avvisaglie di un conflitto alle porte d’Europa bastano per far saltare tutto questo. La Russia è il terzo produttore di petrolio al mondo e fornisce il 40 per cento del metano che consuma l’Europa. Che succede, in caso di conflitto, anche non armato, ma giocato sul filo delle sanzioni e delle controsanzioni? Anche se il comparto energia venisse risparmiato dalle reciproche rappresaglie, basta il clima politico ad arroventare i listini. Il petrolio è già alle soglie dei 100 dollari a barile, il gas sale anche più in fretta. Prezzi già insopportabili rischiano di pesare ancora di più, con effetti devastanti sulla ripresa, che i sussidi dei governi non potrebbero ammortizzare. Il caro-energia soffoca i conti delle aziende e, contemporaneamente, il caro-bollette riduce il potere d’acquisto delle famiglie, zavorra i consumi e la spinta della domanda. Anche l’obiettivo italiano di una crescita del Pil 2022 al 4 per cento, al di sotto pure delle ultime previsioni ufficiali, a questo punto è in forse.
Caro-energia significa, infatti, anche inflazione. Già oggi, metà dell’aumento dei prezzi, in Europa, proviene direttamente dagli aumenti di petrolio e gas. Le speranze di un appiattimento della curva dei prezzi nei prossimi mesi sono legate all’ipotesi che il caro-energia si fermi. Se questo non avviene, l’inflazione mangerà ancora di più nel potere d’acquisto delle famiglie, azzoppando consumi e domanda. Con il rischio di avviare una spirale prezzi-salari che renderebbe l’inflazione capace di autoalimentarsi, a prescindere dall’energia.
A questo punto, la Bce, già sul punto di varare una stretta monetaria, agirebbe con decisione anche maggiore e l’economia dovrebbe aggiungere ai costi dell’energia e dell’inflazione anche un più pesante costo del credito, destinato a gravare anche sui conti pubblici.
E non finisce qui. Perché caro-bollette, inflazione e stretta monetaria fanno salire anche il costo della transizione energetica che è gran parte del Pnrr, come dell’impegno epocale della lotta contro il riscaldamento globale.
Non deve finire per forza così, con uno scenario da far tremare i polsi. Ma il revanscismo di Putin pone un problema che pare insolubile. Il padrone del Cremlino è consapevole che la Russia è ancora un gigante militare, ma un nano economico (il Pil russo è inferiore a quello italiano, vale più o meno quanto il Benelux) e una comparsa geopolitica. La pretesa di restituire a Mosca l’area di influenza dei tempi dell’Urss, con governi-fantoccio nei paesi ai suoi confini – che è l’obiettivo ormai dichiarato della partita ucraina di Putin – mira a recuperare peso e status e può non sembrare assurda a chi ha vissuto i decenni della Guerra Fredda. Ma la storia ha preso un’altra strada. L’obiettivo di Putin è, infatti, antistorico perché indigeribile, se non vinci un referendum o, almeno, le elezioni. E cominciare a pasticciare con i confini è una cosa che spaventa, oggi, anche i cinesi.
Al Cremlino sono probabilmente convinti che siamo all’ultima chiamata per fermare la deriva occidentale degli ucraini e dell’Ucraina. E’ altrettanto probabile che si sbaglino e che sia comunque troppo tardi. Il punto non è tanto il ruolo della Nato su cui compromessi più o meno espliciti sono possibili. Il punto è l’adesione o un’associazione con l’Europa, più esattamente con la Ue, l’Unione europea, un sogno e un miraggio, più popolare del richiamo della Madre Russia e che Putin non ha modo di combattere. Se non con le armi, appunto.
Maurizio Ricci