“È morto un neonato”. Una frase buttata lì, con aria di circostanza, durante la cronaca degli sbarchi a Lampedusa. L’inizio della vita e la sua quasi contemporanea fine. Un lampo di esistenza, una speranza in fieri, il mistero della venuta al mondo. Pochi giorni, o pochi mesi. I primi pianti e le prove di sorriso. La ricerca del seno materno, del calore rassicurante, delle carezze, del contatto corporeo che surroga il taglio del cordone ombelicale. E una ninna nanna, una musicalità che culla e attenua dolore e paura. Poi, d’improvviso, di nuovo il buio. Il ritorno nel vuoto dal quale si era appena usciti.
Che prova, una creatura così piccola, quando il suo cuoricino, che si sta preparando per la maratona dell’esistenza, smette di battere? Quali sensazioni in quell’ingenuo apparato neurologico? Tutto scompare, non c’è più luce, non si ode nulla. Potremmo dire che, non essendoci consapevolezza, non c’è nemmeno la terrifica angoscia dell’adulto che sta affogando lì vicino. Si va giù, ignari, negli abissi dell’oscurità. Ma chi siamo noi per capire quel che accade in quegli attimi tremendi? Gli occhi ormai chiusi, la boccuccia piena d’acqua, un ultimo sussulto, e poi più nulla. La rigidità cadaverica annulla ogni fremito, come ghiaccio che gela un virgulto. Un neonato che muore, indicibile ossimoro.
Ma non ci sono tempo e spazio per l’angosciosa pietà. Il presente incombe, con le facce trucide e le voci gracchianti dei politici che invocano confini, respingimenti, blocchi navali. “Aiutiamoli a casa loro”, dicono. Ma dovrebbero dire: “Non sporchiamoci le mani. Facciamoli uccidere a casa loro”. Fame, sete, malattie, deserto, sevizie, violenze, aguzzini, trafficanti, dittatori. “Non è colpa nostra”, dicono i paladini della pelle bianca, dimentichi degli orrori colonialisti, dello sfruttamento, della devastazione, delle guerre. In Africa, in tutta l’Africa, abbiamo fatto e facciamo ancora il bello e il cattivo tempo e poi ci arrabbiamo se colonne di diseredati cercano la nostra protezione.
Chiudiamo le porte della fortezza Europa, così come nel Medioevo venivano alzati i ponti levatoi. E quando il signorotto locale usciva dal castello, i cavalli della sua scorta calpestavano i poveri ammassatisi davanti al cancello. Il fuori e il dentro. Che è cambiato? Il terremoto in Marocco e le inondazioni in Libia provocheranno altri esodi massicci. Affrontare un tale sconvolgimento della storia solo con il pugno duro e i decreti sicurezza, oltre che disumano, non serve. Troppo forte è la pressione dei disperati per pensare di arginarli con la forza.
Ma allora che facciamo? Li accogliamo tutti? La nostra civiltà è destinata a crollare come l’Impero Romano sotto i colpi dei barbari? Ci invadono, vi rendete conto? Non vedete come vagano per città e paesi, sporcano, rubano, violentano, irridenti e protervi. Difendiamo le nostre donne, la nostra cultura, il nostro territorio! Viva Salvini, viva il generale Vannacci!
Certo, le politiche scellerate di accoglienza sono concausa dell’attuale situazione. Il buonismo solo a parole e senza fatti ha generato caos e allarme. Perché la sinistra, quando poteva, non ha cancellato la legge Bossi-Fini, generatrice di clandestinità e di vagabondaggio? Perché non sono stati costruiti veri ed efficienti centri di accoglienza? Perché si è di fatto tollerato che i nuovi schiavi finissero nella rete degli sfruttatori e dei caporali, dalla raccolta di frutta e verdura ai lavori più disagiati?
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. L’unica strada percorribile, di fronte a un fenomeno biblico che travolge ogni muro, resta l’integrazione. Vera, seria, certosina. Ha ragione David Carretta quando, sul Foglio, invoca corsi di lingua, di cultura, di educazione civica, formazione professionale e riconoscimenti delle qualifiche, permessi di lavoro.
Ma il dramma è che gli spacciatori di odio stanno travolgendo ogni ambito di umanità. La ragione fugge, inseguita dai latrati delle bestie sovraniste. La pietà vacilla, sotto i colpi dell’intolleranza. C’è posto solo per le sorelle e i fratelli d’Italia!
È morto un neonato.
Marco Cianca