Sono entrato in Cgil (precisamente alla Fiom di Bologna) nel 1965, a 24 anni: non avevo ancora finito l’Università (mancava la tesi di laurea). Sono rimasto in quell’organizzazione, ricoprendo incarichi ben al di là delle mie aspettative, per un trentennio. Mi sono sempre imbattuto, nei locali del sindacato, in ritratti – spesso gigantografie – di Giuseppe Di Vittorio, di cui si tessevano le lodi come un ‘’padre della Patria’’. Tra i meriti indiscussi, talvolta, veniva ricordato il suo ‘’non si spara sui lavoratori’’ attribuito al grande leader sindacale in occasione dei moti popolari di Poznan in Polonia (repressi dalla Polizia con morti, feriti e centinaia di arresti) e pochi mesi dopo, a fronte della tragedia ungherese. Era il 1956. Nei primi mesi dell’anno si era svolto il XX Congresso del PCUS, con la presentazione del rapporto segreto sui crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev.
Alla vicenda, i compagni accennavano con l’intento di sottolineare il coraggio dimostrato da Di Vittorio nello sfidare la diversa posizione del Pci e nel criticare l’URSS per l’invasione dell’Armata rossa in Ungheria, piuttosto che per condividerne le dichiarazioni. Arrivato ormai alle soglie degli ottant’anni ho preso a dedicarmi, un po’ alla rinfusa, all’approfondimento della storia del ‘900, il mio secolo. Mi sono imbattuto – dietro la segnalazione di un caro amico – in un libro a firma di Adriano Guerra e Bruno Trentin (il quale ha contribuito all’opera con un lungo saggio a testimonianza diretta di quegli eventi) edito dall’Ediesse nel 1997 col titolo: ‘’Di Vittorio e l’ombra di Stalin’’. E’ un’accurata ricostruzione storica di quel tragico 1956, iniziato con le speranze suscitate dal XX Congresso e terminato con lo sferragliare dei carri armati per le vie di Budapest, con i processi e le impiccagioni.
Ovviamente, mi guardo bene dal sostenere che quelle vicende siano state segretate. Il libro di Guerra e Trentin contiene dei riferimenti ad una bibliografia vastissima sia per quanto riguarda il partito che la Cgil. Resta il fatto, tuttavia, che nel trattare le vicende di quel periodo non sono in grado di affidarmi alla memoria e di attingere a quella tradizione orale che tanto mi è stata utile nel ricostruire aspetti particolari della storia della Cgil. In sostanza, l’invasione dell’Ungheria – diversamente da quella di Praga di una dozzina di anni dopo – divise la sinistra e lo stesso Partito comunista, innanzi tutto sull’analisi dei fatti, sulla natura delle proteste: si trattava di una insurrezione democratica e popolare delle masse oppresse oppure di moti, determinati certamente da errori dei gruppi dirigenti dei partiti, ma egemonizzati da forze e spinte controrivoluzionarie che avevano frastornato anche i lavoratori?
Nel dibattito aspro e diffuso apertosi nel Pci erano in campo tre posizioni: quella di tanti intellettuali (sottoscrittori del ‘’documento dei centouno’’) che condannavano l’invasione e solidarizzavano con gli insorti; quella dei conservatori – guidati da Pietro Secchia – secondo i quali la colpa era da attribuire alle aperture realizzate dal XX Congresso; quella centrista di Palmiro Togliatti, il quale rivolgeva critiche durissime ai dirigenti comunisti di quei Paesi e ai ritardi con cui avevano proceduto nel rinnovamento, ma che invitava a schierarsi, data la situazione di fatto, nel proprio campo in difesa delle istituzioni delle Democrazie popolari, messe in discussione così radicalmente. In quella circostanza, la Cgil e lo stesso Di Vittorio svolsero, nel dibattito, un ruolo cruciale, tanto da destare ancora stupore ed apprezzamento a tanti anni di distanza. Non emerse – nel contrasto tra Cgil e Pci – soltanto un sentimento di solidarietà per operai che – sia pure sbagliando secondo alcuni – combattevano armi in pugno, ma fu ribadita una concezione moderna ed autonoma del sindacato, in un momento di grande difficoltà per il partito.
Anzi, la posizione della Cgil divenne il punto di raccordo di quanti dissentivano dal ‘’cerchiobottismo’’ di Palmiro Togliatti. Alcuni mesi prima Di Vittorio aveva espresso una dura critica nei confronti del Governo polacco che aveva represso nel sangue, una vera e propria rivolta degli operai di Poznan. In quella occasione il leader della Cgil era andato ben oltre il significato di una dichiarazione di solidarietà, che era già tanto dal momento che, nella propaganda ufficiale, i moti polacchi erano responsabilità di provocatori al soldo del capitalismo. Di Vittorio aveva messo in discussione uno dei principi fondamentali del marxismo-leninismo sostenendo – e ripetendo il concetto più volte in diverse occasioni – che i sindacati ‘’anche nei paesi socialisti hanno il compito di difendere energicamente le giuste rivendicazioni’’ dei lavoratori.
Ma quando l’Armata rossa invase l’Ungheria nell’autunno del 1956, la presa di posizione della segreteria della Cgil fu ancora più netta. Il libro di Guerra e Trentin la riporta per intera. Noi ci limitiamo a riscrivere il brano più significativo: ‘’La segreteria della Cgil di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria (…..) ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari’’. Il documento poi prendeva atto ‘’dell’evolversi positivo della situazione in Polonia’’, ed aggiungeva che ‘’fedele al principio di non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato’’ la segreteria deplorava ‘’che sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere’’.
Come si era arrivati a formulare una nota tanto critica ? Una versione accreditata nel libro fa riferimento ad un’iniziativa dei segretari e vice segretari socialisti (in particolare Giacomo Brodolini e Piero Boni) che si sarebbero presentati, per scrupolo, a Di Vittorio con il testo, prima di diffonderlo a nome della componente. E Di Vittorio si sarebbe limitato a dire ‘’Va bene’’, autorizzando così la pubblicazione del comunicato a nome di tutta l’organizzazione. Si disse allora che il segretario generale temesse una rottura dell’unità della Cgil proprio quando si stava ricostruendo un modus vivendi con Cisl e Uil. In ogni caso, Di Vittorio volle metterci del suo con una successiva dichiarazione ‘’personale’’, in cui aggiungeva al comunicato della Confederazione che “gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica’’ e criticava coloro che attribuivano ‘’ai ribelli’’ la volontà di ripristinare il precedente regime capitalistico e semifeudale.
Pertanto, secondo Di Vittorio, i protagonisti della rivolta, nonostante i deprecabili eccessi, non erano controrivoluzionari ma autentici combattenti per la libertà, per l’indipendenza e per il socialismo. Nel dibattito che quegli avvenimenti determinarono all’interno del Pci, le posizioni della Cgil e di Giuseppe Di Vittorio divennero un riferimento per tante strutture del partito che volevano esprimere il loro dissenso rispetto alla linea sostenuta da Togliatti, tanto che molti osservatori pensarono (erano in corso le assemblee di base per lo svolgimento dell’VIII Congresso) che il leader sindacale potesse contendere al ‘’Migliore’’ la segreteria del Partito. Ma nella riunione della Direzione del Pci del 30 ottobre, dopo le critiche rivoltegli nella relazione da Palmiro Togliatti, Di Vittorio – che smentì di aver pensato di candidarsi a sostituire Togliatti – si trovò isolato sulla questione ungherese, anche se nel suo intervento aveva cercato di ridurre la portata del dissenso senza tuttavia cedere di un centimetro sulla questione di principio: la Cgil si era giustamente schierata al fianco dei lavoratori ungheresi, protagonisti di un’insurrezione che doveva essere vista come ‘’un fatto storico’’.
Nei giorni successivi, Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta furono inviati in ‘’missione esplorativa’’ per convincere Di Vittorio a fare autocritica. Furono incontri durissimi, da cui il leader sindacale usciva ‘’travolto dall’emozione’’ e spesso con le lacrime agli occhi. Il 4 novembre, mentre Mosca avviava ‘’la soluzione militare’’, Di Vittorio si trovava a Livorno e decise di non approfondire il solco tra la Cgil e il Pci, inserendo nel suo discorso l’esigenza di difendere, in Ungheria, le grandi conquiste della rivoluzione, la nazionalizzazione dell’industria e la riforma agraria, minacciate dal rientro in campo delle vecchie forze reazionarie. Ma non si rimangerà mai la dichiarazione della segreteria del 27 ottobre, ripetendo che nei paesi socialisti per evitare la burocratizzazione e distacchi così profondi tra il gruppo dirigente e la base occorreva ‘’una democratizzazione profonda dei poteri popolari’’.
Si parlò e si scrisse, allora, di un ‘’voltafaccia’’ di Di Vittorio: una critica ingenerosa e semplicistica, astrattamente avulsa dal contesto di quei tempi ed inadeguata a comprendere che cosa significasse per una persona essere comunista. Peraltro, nella logica del Pci di allora, nonostante il coraggio ‘’utopistico’’ di Di Vittorio, la linea di Togliatti fu vincente perché era la più aderente alla realtà. Se si considerava una conquista, in sé, un ordinamento politico ed economico definito socialista, non si poteva non vedere che in Ungheria questo ‘’bene comune’’ era messo in discussione. Non è un caso che nel 1968, sia pure con eccessiva cautela, Il Pci non esitò a condannare l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. La ‘’primavera di Praga’’ non intendeva abbattere il regime socialista, ma garantirne la democrazia e la partecipazione. Si spiega così anche l’adorazione per Gorbaciov e per la sua promessa di riforme e di trasparenza. Ma ben presto ci si rese conto che ‘’il socialismo si abbatte, non si cambia’’. Almeno per quanto riguarda il ‘’socialismo realizzato’’, nel momento in cui, dopo il 1989, le popolazioni fecero capire che per loro non esisteva, in quei regimi, alcun ‘’bene comune’’ da custodire e salvaguardare.
P. S.
Mi sono accorto di parlare di avvenimenti e di personalità del secolo scorso come se fossero noti ai lettori di oggi. Pertanto ho scaricato da Wikipedia alcune schede che ricordano per sommi capi quegli eventi.
Il XX Congresso del PCUS
L’assise si tenne presso il Gran Palazzo del Cremlino di Mosca dal 14 al 26 febbraio 1956. È passato alla storia in particolar maniera per l’intervento di Nikita Chruščëv, in cui il Primo segretario del partito denunciò il culto della personalità del suo predecessore, Iosif Stalin, aprendo così al processo di destalinizzazione. Concluso il congresso con la elezione del Comitato Centrale, il segretario convocò i delegati in una seduta a porte chiuse in cui venne letto il ‘’Rapporto segreto’’ sui misfatti di Stalin.
Poznan (Polonia)
Alla fine di giugno del 1956, al grido “pane e libertà”, insorgono gli operai polacchi di Poznan, città posta sul fiume Warta nella parte occidentale della Polonia. Gli operai delle officine Stalin, che non vedono soddisfatte le loro richiese economiche, entrano in sciopero e chiamano tutti a sfilare per le vie della città. La tensione è altissima e il popolo scende in piazza. Per tre giorni si tengono assemblee in tutte le fabbriche della Polonia. Il Comitato centrale sovietico (30 giugno) attribuisce ogni responsabilità ai sobillatori americani che si sono infiltrati nelle organizzazioni operaie. Gli scioperanti si scontrano con la polizia e al termine degli scontri si contano cento morti, trecento feriti e altrettanti arresti.
Ungheria
Dopo la Germania dell’Est e la Polonia il 23 ottobre 1956 scoppiò a Budapest una sommossa che aveva come obiettivo la liberazione dall’influenza che l’Unione Sovietica esercitava sul paese dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con la morte di Stalin, avvenuta nel 1953, alcuni paesi dell’Europa comunista avevano iniziato a ribellarsi all’URSS. L’insurrezione ebbe inizio da una dimostrazione pacifica organizzata da un gruppo di studenti. La manifestazione si trasformò presto in una vera e propria protesta contro la dittatura di Mátyás Rákosi, cui seguirono scontri con la polizia segreta e i militari sovietici. Furono milioni gli ungheresi che si riversarono nelle strade e i rivoltanti, nel giro di pochi giorni, iniziarono a prendere il controllo delle principali istituzioni. Imre Nagy fu nominato primo ministro e divenne il simbolo della rivolta. Dopo quattro giorni di combattimenti a Budapest e in tutto il paese, il 28 ottobre venne annunciato un cessate il fuoco e il ritiro delle truppe sovietiche. Il 1° novembre Nagy annunciò il ritiro dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e chiese all’ONU di porre la questione ungherese all’ordine del giorno. Intanto iniziarono i movimenti dell’Armata Rossa intorno agli aeroporti ungheresi, con la motivazione ufficiale di proteggere l’evacuazione dei sovietici. Il 4 novembre l’Armata Rossa entrò a Budapest con 200 mila uomini e 4mila carri armati ed ebbe inizio la repressione sovietica. Incursioni aeree, bombardamenti e interventi di carri armati durarono fino al 9 novembre, quando i Consigli di studenti, lavoratori e intellettuali si arresero definitivamente.