Uno dei paradossi italiani è che, da un lato, il nostro è un grande paese industriale, mentre, dall’altro, è un paese che appare privo di cultura industriale. E questo è un paradosso perché, con altrettanta evidenza, se l’Italia è, come è, la seconda potenza manifatturiera dell’Europa, ciò vuol dire che ci sono molte fabbriche e quindi, anche, molta gente che, dentro o attorno a queste fabbriche, lavora nei ruoli più diversi, da quello dell’operaio a quello dell’imprenditore. Il che implica, necessariamente, che, in realtà, una cultura industriale sedimentata, strutturata e ramificata deve pur esserci, in questo stesso Paese. E tuttavia, il punto è che questa cultura, viva e attiva dalle officine agli uffici, e su, su fino alla Borsa, si arresta, per così dire, alle soglie dei luoghi e dei momenti in cui si discute delle sorti della Nazione. Non riesce, insomma, a informare di sé il discorso pubblico.
Se non fosse così, non si capirebbe come il Governo formato da Lega e MoVimento 5 Stelle abbia potuto anche solo concepire l’idea di rischiare una rottura frontale con ArcelorMittal, il colosso franco-indiano dell’acciaio, con cui aveva concluso appena 9 mesi fa, e cioè nel settembre del 2018, un importantissimo accordo, quello relativo alla cessione dell’Ex Ilva in Amministrazione straordinaria. Di rischiare tale rottura, intendiamo dire, senza correre il rischio di essere poi sommerso da un’ondata di commenti negativi sui mezzi di informazione e nell’opinione pubblica.
Si può anzi dire che è proprio contando sulla debolezza della presenza dei temi industriali nel nostro discorso pubblico che uno dei due contraenti del Patto che, l’anno scorso, ha dato vita all’attuale Governo, e cioè il MoVimento 5 Stelle, ha impostato la sua più recente iniziativa. Un’iniziativa che è consistita nell’inserimento nel decreto Crescita, definitivamente approvato ieri al Senato, di un emendamento che cancella la cosiddetta impunità penale connessa alla gestione dello stabilimento siderurgico di Taranto.
Un’operazione, questa, volta, in tutta evidenza, a ottenere un recupero di consensi sia in generale, nella società italiana, sia, specificamente, nell’area tarantina, dove lo stabilimento ex Ilva si è conquistato, negli anni, molte ostilità. Un recupero avvertito, probabilmente, come particolarmente necessario dopo la batosta subita dai 5 Stelle nelle recenti elezioni europee.
Chiediamoci, dunque: cosa è arrivato, all’opinione pubblica, a partire da questa notizia? Primo: che il Gruppo, fra l’altro straniero, che ha rilevato lo stabilimento tarantino, godeva di una qualche immunità penale rispetto agli effetti inquinanti dell’attività del centro siderurgico. Secondo: che tale immunità è, in qualche modo, un’eredità dei Governi precedenti a quello attuale, ovvero quelli guidati dal Pd. Terzo: che il Governo del Cambiamento ha giustamente soppresso questa immunità che era non solo allarmante, ma anche del tutto ingiustificata. Quarto: che tale immunità è stata soppressa, in particolare, grazie a un’iniziativa legislativa promossa dal Movimento 5 Stelle. Quinto, che non appena lo scudo della suddetta immunità è stato rimosso, gli stranieri di ArcelorMittal hanno minacciato di chiudere lo stabilimento di Taranto a partire dal prossimo 6 settembre.
Ora il punto è semplicemente questo: che le cose non stanno così. E non stanno così anche perché, purtroppo, in questa lunga vicenda Ilva tutto è realmente e maledettamente complicato.
Cominciamo dunque dal principio. Poco meno di sette anni fa, e cioè il 26 luglio 2012, il Gip di Taranto, Patrizia Todisco, emette un provvedimento di sequestro, “senza facoltà d’uso” dell’area a caldo dello stabilimento Ilva. Ciò perché l’attività produttiva, altamente inquinante, era considerata causa di “malattia e morte”. In tale data, il Gip dispose anche la custodia cautelare, con arresti domiciliari, di otto persone, fra cui due membri della famiglia Riva, proprietaria del gruppo Ilva: il padre, Emilio, e il figlio Fabio.
Questo sequestro era motivato dal fatto indubbio che la gestione dei Riva aveva gravemente trascurato la ricerca di una possibile compatibilità fra la produzione dell’acciaio e le condizioni di vivibilità nell’ambiente circostante. Le responsabilità dell’inquinamento atmosferico ricadevano, insomma, non sulla presenza, a ridosso della città di Taranto, di un’acciaieria, e sia pure del più grande stabilimento siderurgico dell’intera Europa, ma sul modo in cui era stato fin lì condotto.
Ora qui ci sono un paio di cose che vanno chiarite. Prima: lo stabilimento siderurgico ricopre un’area più grande dell’intera città di Taranto. Seconda: gli effetti inquinanti dello stabilimento erano derivanti non solo dalla sua attività, ma dalla sua stessa presenza. In altri termini, agli effetti inquinanti delle emissioni connesse all’attività degli altoforni, si aggiungevano quelli connessi alla presenza dei cosiddetti “parchi minerali”, le distese di materiali minerali (carbone, ferro), necessari alla produzione dell’acciaio, accumulati a cielo aperto. Per non parlare del terreno inquinato in profondità.
A ciò va poi aggiunto il fatto che un altoforno non è una macchinetta che possa essere spenta premendo su un interruttore. Al contrario, è un impianto caratterizzato non solo dalle sue grandi proporzioni, ma anche da una struttura particolarmente complessa. Ne deriva che il suo spegnimento, se programmato tenendo conto delle esigenze di sicurezza e volendo evitare la distruzione dell’impianto stesso, implica un processo altrettanto complesso che comporta, a sua volta, una serie di passaggi successivi e scaglionati nel tempo.
Sequestrare l’area a caldo di un centro siderurgico integrato non è, insomma, come sequestrare una pistola. Gli esperti di questioni industriali e, specificamente, siderurgiche, fecero quindi osservare che se si voleva veramente fare ciò che era peraltro necessario, ovvero avviare un’opera di risanamento dello stabilimento siderurgico di Taranto e di compatibilizzazione della sua attività produttiva con l’ambiente circostante, il mero sequestro dell’area a caldo non costituiva la via giusta. E ciò anche perché l’esperienza fatta con l’acciaieria di Bagnoli, a Napoli, stava lì a dimostrare come la chiusura di uno stabilimento siderurgico potesse portare al suo abbandono e quindi a un mancato risanamento. Mentre era molto più credibile l’ipotesi di un risanamento e di una compatibilizzazione avviati e portati avanti in presenza di uno stabilimento attivo e operante, e dotato quindi di un proprietario interessato alla sua salvezza.
Dopo il Governo Monti, che all’epoca del sequestro aveva davanti a sé solo pochi mesi di vita, e dopo la breve esperienza del Governo Letta, fu questa la strada imboccata con decisione dal Governo Renzi. Il quale, il 21 gennaio del 2015, nominò tre Commissari straordinari – Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi – cui veniva affidato il gruppo Ilva in Amministrazione straordinaria. La loro missione era, per così dire, triplice. In primo luogo, trovare un compratore del gruppo Ilva, ormai sottratto ai Riva. Nel frattempo, riavviare l’attività produttiva e, contemporaneamente, avviare l’opera di risanamento ambientale.
E qui, dopo una digressione storica della cui lunghezza ci scusiamo, ma che era forse necessaria, si torna al punto. Perché se lo stabilimento siderurgico, in quanto tale, è fonte di inquinamento, e se questi effetti inquinanti superano le prescrizioni previste dalla cosiddetta Aia (Autorizzazione integrata ambientale), anche chi si trova ad essere responsabile legale della società proprietaria dello stabilimento stesso, il gruppo Ilva in Amministrazione straordinaria, avendo ricevuto dal Governo i compiti sopra ricordati, rischia che gli vengano addebitati dei reati contro l’ambiente e la salute pubblica. Il che, in tutta evidenza, avrebbe potuto portare a un blocco totale di tutto. E cioè non solo delle attività produttive e, quindi, dell’occupazione, ma anche dei percorsi di risanamento.
E’ per questo motivo che, nello stesso 2015, ancora sotto il Governo Renzi, fu concepito un provvedimento che poneva i Commissari straordinari al riparo non dalle conseguenze penali di reati da loro eventualmente commessi, ma dai rischi di essere inquisiti a causa degli effetti inquinanti connessi all’esistenza stessa del centro siderurgico. Insomma, non una licenza di inquinare ma, al contrario uno scudo per poter avviare e gestire il risanamento ambientale del centro siderurgico. Cosa che è poi avvenuta, ad esempio, sotto impulso del ministro Calenda, proprio per l’avvio della copertura dei famigerati parchi minerali. Un’area estesa, come lo stesso Calenda sottolineò più volte, come una ventina di stadi di calcio.
Ebbene, nella gara internazionale che è stata poi vinta, nel 2017, da ArcelorMittal attraverso AM InvestCo Italy, azienda costituita ad hoc, una delle richieste che venivano fatte ai partecipanti era quella di presentare, oltre a un piano industriale, anche un piano ambientale. In altri termini, il candidato acquirente, e cioè AM InvestCo Italy, si è impegnato, fra l’altro, ad attuare un piano di ammodernamento tecnologico e di risanamento traguardato al 2023. Un piano che, ovviamente, doveva e deve tener conto dell’ultima versione dell’Aia, ovvero di prescrizioni ambientali messe a punto dai nostri poteri pubblici.
Ora, come ha osservato Paolo Bricco sul Sole 24 Ore di giovedì 27 giugno, “l’asta internazionale a cui ArcelorMittal ha partecipato” aveva come “precondizione giuridica necessaria” la “sicurezza di non dover rispondere per reati compiuti prima da altri”. Non è quindi strano il fatto che mercoledì 26 giugno, alla vigilia del voto del Senato, Geert Van Poelvoorde, Amministratore delegato di ArcelorMittal Europe e Presidente di Eurofer, abbia dichiarato: “Non posso mandare i miei manager” in un posto in cui potrebbero essere considerati come “penalmente responsabili”. Risultato: “Se il Governo non trova una soluzione, il 6 settembre l’impianto chiuderà”, ha detto ancora Van Poelvoorde.
Insomma, a meno di un anno di distanza dall’allora sbandieratissimo accordo concluso con ArcelorMittal da un Di Maio fresco di nomina come Ministro dello Sviluppo Economico, il partito di cui lo stesso Di Maio è il capo politico ha deciso di fare terra bruciata attorno allo stabilimento tarantino, cuore di quell’accordo.
E lo ha fatto non solo con un emendamento, allo stesso tempo esile e dirompente, al cosiddetto decreto Crescita, ma con una calata in forze effettuata a Taranto lunedì 24 giugno. Quel giorno, infatti, era stato convocato in città il Tavolo del Contratto istituzionale di sviluppo. E il triministro Di Maio, che – come è noto – assomma in sé le cariche di Vice Presidente del consiglio, ministro dello Sviluppo Economico e ministro del Lavoro, si è presentato in Prefettura circondato da ben 5 Ministri, tutti in quota al Movimento 5 Stelle: Trenta (Difesa), Lezzi (Sud), Grillo (Salute), Costa (Ambiente) e Bonisoli, (Beni Culturali), cui si è aggiunto il Vice Ministro Fioramonti (Miur). E prima che l’incontro cominciasse, lo stesso Di Maio ha sentito il bisogno di dichiarare che “il problema dell’immunità è risolto perché non c’è più immunità penale”. Specificando poi che “questo era il nostro obiettivo”.
Ora il tavolo del Contratto istituzionale di sviluppo era stato pensato e istituito dal Governo Renzi, sempre nel 2015, come un veicolo di integrazione della monocultura siderurgica. E, stando alle parole di Di Maio, le cose, formalmente, stanno ancora così, nel senso che lo scopo del tavolo è ancora quello di promuovere una diversificazione dell’economia del territorio tarantino. Ma il fatto-notizia della calata dei ministri pentastellati, contemporanea alla discussione in Parlamento dell’emendamento sulla fine dell’immunità penale per i gestori del centro siderurgico, lascia immaginare altri scenari. Perchè l’impressione è che si voglia puntare non più su una diversificazione produttiva ma su un’impossibile sostituzione della produzione di acciaio con un po’ di turismo culturale. Insomma, scenari da brividi per un grande paese manifatturiero.
“E’ il momento della responsabilità di Governo e impresa. L’attività siderurgica non può essere fermata, altrimenti il nostro Paese non sarà più un Paese industriale.” Parole di Maurizio Landini, Segretario generale della Cgil ed ex leader della Fiom, lo storico sindacato dei metalmeccanici. Insomma, uno che del rapporto che c’è fra produzione di acciaio e industria manifatturiera se ne intende.
Fra il 2017 e il 2018, grazie a un lavoro sapientemente impostato dal ministro Calenda (Governo Gentiloni), e poi concluso dal ministro Di Maio (Governo Conte), il nostro Esecutivo è riuscito a vendere il gruppo Ilva, proprietario della più grande acciaieria europea, quella di Taranto, al gruppo ArcelorMittal, ovvero al più grande produttore di acciaio attivo sul pianeta Terra. Se il colosso franco-indiano dovesse veramente rinunciare a portare avanti l’opera di risanamento dello stabilimento tarantino, a causa dell’ostilità manifestatagli dal MoVimento 5 Stelle, si aprirebbero scenari molto cupi. Anche perché, dove avesse fallito ArcelorMittal, in una fase contrassegnata da nuove difficoltà rilevabili a livello globale nel mercato dell’acciaio, difficilmente si farebbe avanti un altro compratore credibile. E tutti quelli che a Taranto non amano l’ex Ilva, e soprattuto quelli che non vedono di buon occhio il fatto che l’Italia sia ancora un grande paese industriale potrebbero, finalmente, festeggiare.
@Fernando_Liuzzi