Il nostro codice civile, parlando dei collaboratori dell’imprenditore, all’articolo 2094, definisce prestatore di lavoro subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Da tempo si discute se l’amministratore di una società a responsabilità limitata possa nel contempo ricoprire insieme alla carica di rappresentanza anche la qualifica di lavoratore subordinato.
La giurisprudenza dei giudici di merito e dei giudici di Cassazione nel tempo ha offerto una varietà di posizioni l’una con l’altra contrastante con una certa confusione per l’interprete, per le aziende e per gli stessi lavoratori che hanno avuto l’occasione di prestare la loro attività lavorativa rivestendo questa triplice qualità.
Nel caso, ultimamente deciso dalla Corte di Cassazione, si è verificato che l’Inps ha contestato e disconosciuto la natura subordinata di due rapporti di lavoro qualificati come subordinati di due soggetti, che nel contempo, erano titolari della totalità delle quote sociali, in misura del 50% per ciascuno di essi, e nel contempo ricoprivano la carica di amministratore. Il consiglio di amministrazione era composto da loro due che operavano in un regime di assoluta parità e di controllo reciproco. Contro questo disconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, notificato dall’Inps con un verbale di accertamento ispettivo, la società ha proposto ricorso in Tribunale. Il Tribunale ha accolto il ricorso della società riconoscendo la natura subordinata del rapporto di lavoro dei due interessati benché nel contempo ricoprissero la carica di amministratori della società e di socio.
La Corte di Appello di Firenze, su ricorso dell’Istituto previdenziale è stata di contrario avviso ed ha riformato la sentenza perché la partecipazione al “consiglio di amministrazione della società (di cui ciascuno dei due soci era socio al 50%), sia pur con riserva, nella delibera di loro nomina, della necessità di una decisione congiunta di entrambi sulle principali scelte gestionali (comprese quelle relative al personale), ostasse alla costituzione di un vincolo di subordinazione alla società amministrata, per la decisività della volontà di ognuno dei due nella formazione del processo decisionale e volitivo”.
La società non soddisfatta ha proposto ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte di Appello, assumendo che i due soci sebbene fossero titolari della totalità delle quote e fossero membri esclusivi del consiglio di amministrazione della stessa società, ben potevano assumere anche la qualità di lavoratori subordinati perché il vincolo di subordinazione era configurabile nella circostanza che, essendo entrambi componenti del consiglio di amministrazione e soci in posizione paritaria, ogni decisione societaria necessitava di una decisione congiunta, con la conseguenza che l’uno era subordinato all’altro.
La Cassazione ha accolto il ricorso della società riconoscendo la piena compatibilità tra la carica di amministratore e quella di lavoratore subordinato.
Per la Cassazione sussiste l’incompatibilità della condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società esclusivamente nel caso in cui il socio rivesta anche la qualifica di amministratore unico di una società, “non potendo in tal caso realizzarsi un effettivo assoggettamento del predetto all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che si caratterizza quale requisito tipico della subordinazione”.
Nel caso specifico la carica di amministratore è ben cumulabile con il rapporto di lavoro subordinato purché sia accertata “l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale e il vincolo di subordinazione, ossia l’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società. Questa circostanza ricorre, qualora sia individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta, tale da determinare la soggezione del dipendente-amministratore ad un potere disciplinare direttivo esterno, sì che la qualifica di amministratore costituisce uno “schermo” per coprire un’attività costituente, in realtà, un normale lavoro subordinato: così risultandone provata la soggezione al potere direttivo e disciplinare di altri organi della società e l’assenza di autonomi poteri decisionali”.
La Cassazione non ha condiviso la sentenza della Corte di Appello di Firenze, ritenendola errata, là dove ha affermato che fosse dirimente, in senso ostativo, in sé e per sé, la possibilità di riconoscere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, nel caso in cui coesistono le qualità, in entrambi i lavoratori, di membri del consiglio di amministrazione della società (di cui ciascuno era socio al 50%), nonostante la previsione nella delibera della loro nomina della necessità di una decisione congiunta di entrambi sulle principali scelte gestionali, comprese quelle relative al personale; in assenza, in capo ad ognuno dei due amministratori, di un autonomo potere direttivo sul personale rapporto di lavoro, invece, conferito a un diverso centro decisionale di amministrazione congiunta sovrapersonale”. – Cassazione sezione lavoro numero 2487, pubblicata il 27 gennaio 2022.
In sostanza, la Cassazione ha affermato che nel caso sottoposto al suo esame, si poteva ben configurare un rapporto di lavoro subordinato perché ciascun socio-amministratore era sottoposto alla vigilanza e al controllo dell’altro socio-amministratore: i due agivano in assoluta parità di reciproco controllo e direzione.
La Corte di Appello di Firenze dovrà riesaminare i fatti di causa perché la qualità di socio di una S.r.l., unita alla qualità di co-amministratore della stessa società, non può escludere, in modo imperativo e assoluto, la possibile coesistenza anche di un rapporto di lavoro subordinato; l’unica condizione richiesta è quella di verificare se nella realtà e nei fatti sussistono quei vincoli direttivi, gerarchici e disciplinari tipici del rapporto di lavoro subordinato come definito dal codice civile e vi sia un’attività lavorativa da svolgere diversa da quella normalmente eseguita da chi rappresenta legalmente una società. Occorre accertare, insomma, se il socio amministratore, per la società svolgesse anche quelle mansioni tipiche degli altri lavoratori subordinati.
Il tema è di grande interesse e si presta a molte difficoltà interpretative particolarmente per quei casi particolari, come quello esaminato in questa sentenza, che nella realtà si riscontrano spesso anche con notevole fantasia giuridica da parte di chi li crea e li realizza.
Biagio Cartillone