Non è stato uno sgarbo quello di Cgil e Uil che non sono andati a parlare al congresso della Cisl. Né è stato uno sgarbo quello della Cisl che li ha invitati a una tavola rotonda e non a parlare dal podio degli oratori per rispondere alla relazione di Luigi Sbarra. C’è ben altro dietro questi episodi apparentemente formali, quasi una scaramuccia tra parenti che si fanno dispetti, ma dietro si vogliono bene. Sembra piuttosto che il sindacato confederale italiano abbia intrapreso un percorso che lo porta diritto a una divisione sempre più profonda, dalla quale non uscirà né velocemente, né facilmente.
Dietro questi atteggiamenti si intravede infatti la volontà delle tre confederazioni di andare fino in fondo, costi quel che costi. Lo sciopero generale di dicembre di Cgil e Uil e la risposta della Cisl due giorni dopo con una manifestazione di piazza separata forse è stato solo la prova generale di quanto sta accadendo adesso. L’impressione è che si stiano formando due distinte correnti sindacali, una con un forte carattere riformista, l’altra invece più radicale, non disposta in quanto tale ad accettare, tanto meno a ricercare, un accordo generale con la politica o con le controparti datoriali. La prova vera di questa divisione non a caso è venuta già in autunno, quando il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, in occasione dell’assemblea annuale, ha proposto la realizzazione di un patto sociale triangolare, subito accettato da Mario Draghi, salutato favorevolmente dalla Cisl, ma respinto nei fatti da Cgil e Uil.
Queste due confederazioni non credono nella concertazione, né nella cogestione, forse nemmeno nella partecipazione. La Cisl al contrario è proprio a questi traguardi che vuole arrivare e non sembra disposta a rinunciarvi, considerando la veemenza con la quale Luigi Sbarra ha difeso questa politica nella sua relazione al congresso. Cgil e Uil vogliono invece tenersi le mani libere, respingono legami troppo stretti che ne metterebbero in crisi l’autonomia. Rivendicano il conflitto e lo perseguono. Sia chiaro, anche la Cisl non demonizza il conflitto: tutti sanno bene che è indispensabile per mettere in luce una divaricazione di interessi. Tuttavia i dirigenti cislini sanno altrettanto bene che, dopo aver individuato questa differenza, occorre sedersi a un tavolo appunto per superare la divaricazione che si è evidenziata. Il conflitto per il conflitto non interessa alla Cisl più di tanto. Non che Cgil e Uil cerchino il conflitto fine a sé stesso, ma confidano, o almeno così sembra, nei rapporti di forza, nella possibilità di piegare gli altri al loro punto di vista non con la trattativa e il negoziato, ma, appunto, con le ragioni della forza. Non a caso hanno proclamato uno sciopero generale in dicembre nonostante il negoziato in corso con il governo stesse dando risultati assolutamente non disprezzabili.
E’ evidente che si è in presenza di due paradigmi sindacali non opposti, ma molto diversi. E se i leader della Cgil e della Uil avessero potuto controbattere alla relazione di apertura di Luigi Sbarra avrebbero con tutta probabilità espresso proprio delle tesi diametralmente diverse a quelle del leader della Cisl. Ma se la situazione è questa, è evidente che la ricucitura di queste diverse posizioni non può avvenire con facilità o in tempi stretti. E’ più che possibile che inizi una contrapposizione dura, che si trascini nel tempo e che metta a rischio gli equilibri sindacali generali esistenti fino a questo momento.
E per tutti non saranno tempi facili. Il ricordo degli anni della divisione è molto forte, non è sbiadito, e fa paura. Gli anni successivi all’accordo di San Valentino, dal 1984 in avanti, e, per il comparto metalmeccanico, quelli della divisione su Pomigliano. Quando la divaricazione era arrivata nelle fabbriche, tra i delegati, tra gli stessi lavoratori. Le accuse che le due parti si scambiavano erano feroci, la lontananza totale. Con il risultato, ovvio, che la forza del sindacato, preso nella sua interezza, diminuiva, delegando nei fatti la soluzione dei problemi e la scelta degli equilibri ad altri: alla politica ai tempi della scala mobile, alla Fiat nella guerra di Pomigliano. Anni bui, che fa male ricordare e che si sperava non dovessero tornare mai più. La speranza naturalmente è che la situazione non sia in realtà così tragica, che un accordo fra le tre confederazioni su una linea comune possa ancora essere trovato, ma tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, purtroppo vince molto spesso il secondo.
E parallelamente, verrebbero allo scoperto anche altre verità. Come la debolezza della Confindustria, ad esempio, che, comunque la si metta, non è stata in grado di condurre le parti a un tavolo di confronto triangolare, come pure credeva fosse opportuno. È la crisi più generale dei corpi intermedi che si manifesta. I guasti della disintermediazione avviata da Matteo Renzi erano molto più profondi di quanto non apparisse in superficie e adesso è tutto il mondo del lavoro e della produzione a pagarne il conto. La sterile battaglia sul salario che si sta innescando, e che nessuno riesce a controllare o a indirizzare verso una giusta soluzione, sta lì proprio a sottolineare questa debolezza di fondo.
In questa situazione c’è un elemento di novità che forse vale la pena di sottolineare. Il fatto che la Uil, che storicamente era per lo più schierata con la Cisl sul fronte riformista, ma che comunque cercava comunque un suo ruolo distinto, si sia invece alleata con la Cgil. Una situazione anomala perché questa confederazione, certamente più piccola delle altre due, trovava spesso la sua funzione, e la sua forza, nell’essere tra i due contendenti, ago della bilancia. Ricordiamo tutti le scelte che per vent’ anni fece Giorgio Benvenuto quando era alla guida della confederazione di Via Lucullo. Il nuovo leader avrà trovato la sua convenienza, probabilmente valori che riteneva più importanti. Importante è che questa conversione non interrompa quel percorso felice che stava vivendo la Uil, condito di risultati importanti anche in termini di adesione tra i lavoratori.
Massimo Mascini