di Vincenzo Bavaro, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Note sull’accordo interconfederale unitario
1. Premessa
Forse imprevedibilmente rispetto a quanto scritto di recente (CARINCI, La cronaca si fa storia: da Pomigliano a Mirafiori, in Arg. Dir. Lav., 2011, p. 11), la “cronaca” delle relazioni industriali italiane non si è ancora fatta “storia” visto che nel biennio 2009-2011 si è accentuato il fenomeno della “separazione” contrattale che fin ad allora aveva caratterizzato prevalentemente il settore metalmeccanico. Ebbene, oggi quel fenomeno ha trovato una quasi inaspettata torsione “unitaria” a seguito della firma dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 (da ora in poi AI 2011) fra Confindustria, Cisl, Uil e – appunto – Cgil. Sono apparse decine di pubblicazioni scientifiche e giornalistiche sulla rottura dell’unità sindacale e su come gestirla convivendoci; oggi, invece, si deve fare i conti con una ritrovata unità d’azione del movimento sindacale confederale che rimescola le carte.
Questa notazione non è di poco conto se si pensa che il rinnovato dibattito (politico-sindacale e scientifico) sulle criticità del diritto sindacale italiano e sul sistema di relazioni industriali sembrava quasi aver assunto un postulato: la rottura dell’unità sindacale, appunto. Sennonché, non è la prima volta (e non sarà l’ultima) che Cgil, Cisl e Uil si dividono in alcune fasi delle relazioni industriali, soprattutto quando a dirigere il Paese ci sono Governi c.d. pro business, per poi ricomporsi in presenza (o in prossimità) di Governi c.d. pro labour. Perciò non è questo il problema di un sistema pluralista, com’è quello italiano; cioè, non è la diversità di opinioni o di opzioni politico-sindacali il problema a meno di non voler mutare forzatamente il connotato politico-sociale delle relazioni industriali; il problema è come si compone il pluralismo, cioè se e come si intende “ridurre ad uno” la pluralità.
Per questa ragione è emblematica la vicenda Fiat su cui abbonda ormai la letteratura; per questa ragione è rilevante l’AI 2011 appena sottoscritto la cui analisi – per quel che qui riguarda – assume in partenza una ipotesi: l’AI 2011 concorre in maniera determinante alla costruzione di una struttura di contrattazione e un modello di relazioni industriali che sposta il baricentro verso il livello aziendale. Nel far ciò, pesantemente condizionato dalla vicenda Fiat, l’AI 2011 non chiude i problemi aperti dalla stagione della contrattazione separata ma – al contrario – sembra aprirne di numerosi facendo si che l’Accordo sia solo un ulteriore tassello nella scomposizione del modello sistematico delineato nel 1993, com’è testimoniato, per esempio, dalla nuova configurazione delle rappresentanze sindacali aziendali o del modello di composizione del pluralismo.
Per verificare questa ipotesi, mi sembra indispensabile analizzare i contenuti dell’AI 2011 comparandoli con i contenuti dell’Accordo Interconfederale “separato” del 14 aprile 2009 (da ora AI 2009) al fine di individuare gli elementi di analogia e di differenza.
È poi opportuno notare in via preliminare che, in questo preciso momento storico, il punto di maggior rilievo per le relazioni industriali può essere considerato proprio e niente altro che la firma “unitaria” ricomponendo la frattura con la Cgil soprattutto con la firma ad un accordo sulle regole. Le note che seguono si concentrano soltanto su queste “regole” senza prendere in considerazione i profili generali di natura politico-sindacali che pur possono (e forse, devono) essere presi in considerazione per spiegare il contesto della firma “unitaria”; sappiamo bene che le relazioni industriali si sviluppano nelle condizioni storicamente date tant’è la storia repubblicana delle relazioni industriali italiane è comprensibile solo nella storicizzazione politico-sindacale. Oggi siamo ancora in piena “cronaca” ed è presto per fare la “storia”. Pertanto, dovendo pur partire da qualcosa per spiegare la cronaca dei fatti, non si può che partire dal contenuto dell’AI 2011.
2. Innovazioni e conferme nella contrattazione collettiva nazionale
Cominciamo proprio da dove comincia l’AI 2011, cioè dal punto 1. Si tratta di un elemento di rilevante novità perché viene adottata una tecnica di misurazione della rappresentatività nazionale delle organizzazioni sindacali di categoria del tutto simile a quella già individuata nel documento unitario Cgil-Cisl-Uil del 2008 nel capitolo “Democrazia e Rappresentanza” (v. il mio commento Appunti su «democrazia e rappresentanza» nel documento unitario Cgil, Cisl, Uil, in questa Rivista, 30 maggio 2008) e che sostanzialmente mutua quanto previsto per il lavoro pubblico: determinare il grado di rappresentatività combinando il consenso di tipo associativo (la percentuale di iscritti ad un’associazione sul totale degli iscritti) col consenso di tipo elettorale (la percentuale di voti nella categoria nazionale ottenuta delle liste sindacali alle elezioni delle RSU).
Rispetto all’intesa 2008, nell’AI 2011 vi sono due novità di rilievo: la prima riguarda proprio il fatto che la fonte non è più solo intersindacale ma contrattuale quindi accettata da Confindustria; il secondo elemento di novità attiene al riconoscimento di un indice minimo di rappresentatività (5% come dato media fra percentuale di iscritti e percentuale di voti nella categoria alle elezioni delle RSU) che conferisce al sindacato la «legittimazione a negoziare». Non è irrilevante osservare che in base a questa nuova disciplina pattizia – per esempio – non sarà consentito avviare una contrattazione nazionale “separata” escludendo un sindacato di categoria dotato di sufficiente rappresentatività.
Tuttavia, non è escluso contrattualmente che si possa addivenire a contratti nazionali “separati” (BARBIERI, Tutti i pericoli (e le insidie) di un testo contraddittorio, in il Manifesto, 30 giugno 2011, p. 5). Infatti, mentre si neutralizza il rischio di contrattazione nazionale separata non si può dire la stessa cosa per la firma di contratti “separati”: all’AI 2011 viene solamente allegata un’intesa fra sindacati che si limita a rinviare a futuri regolamenti di categoria la definizione delle procedure per la stipula dei contratti nazionali, non escludendo il coinvolgimento di tutti i lavoratori (iscritti e non). «Tali regolamenti – si legge – dovranno prevedere sia il percorso per la costruzione delle piattaforme che per l’approvazione delle ipotesi di accordo»; inoltre, ammettendo dissensi fra organizzazioni sindacali, «queste intese potranno prevedere momenti di verifica per l’approvazione degli accordi mediante il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori in caso di rilevanti divergenze interne alle delegazioni trattanti».
Colpisce il fatto che l’AI 2011 abbia glissato sull’argomento, rinviando a future intese di categoria e perciò frammentando per settori produttivi la regolamentazione di una materia decisiva per l’efficace svolgimento delle relazioni industriali: avere, cioè, una firma rappresentativa sotto un contratto nazionale. Colpisce dunque che su questa delicata materia si acconsenta alla disarticolazione delle regole in base a ciascuna categoria trascurando il fatto, peraltro, che non è per nulla chiaro cosa debba intendersi per categoria (v. infra). A tal proposito, sappiamo solo che la categoria la determina il contratto collettivo e c’è una moltiplicazione di ccnl (centinaia) sicché – per esempio – occorrerà stabilire fin dove arriva la categoria chimico-farmaceutica e se la rappresentatività sindacale qui misurata varrà anche per i settori di questa categoria, o per quelli affini.
Così come influente risulta anche la rappresentatività delle associazioni d’impresa. Occorrerà, prima o poi, porre al centro di dibattito la rappresentatività delle associazioni d’impresa, visto che la vicenda Fiat ha scoperchiato il vaso di Pandora della crisi della rappresentatività datoriale; crisi rilevante non solo sul piano dell’efficacia dei contratti collettivi ma anche sulla misurazione della rappresentatività sindacale nazionale.
A tal proposito è utile ribadire che, a fronte di un dato certo sulle deleghe associative e sul numero dei voti in azienda, resta tutt’altro chiaro e definito il perimetro categoriale entro cui effettuare la misurazione. Nelle Amministrazioni Pubbliche il perimetro è netto e definito da accordi interconfederali rispetto al quale – questo è il punto – nessuna Amministrazione può sottrarsi. Nel settore privato non può valere lo stesso principio perché è tutta da inventare la nozione di «categoria» e perché occorre fare i conti con la libertà contrattuale d’impresa. Si tratta di una questione complessa che sta sullo sfondo e che si continua a trascurare tenuto conto che solo un intervento legislativo costituzionale di attuazione dell’art. 39 Cost. potrebbe darne soluzione.
Proviamo a spiegarci meglio con un esempio. L’AI riguarda tutte le imprese di Confindustria; pensiamo alle imprese metalmeccaniche. L’indice di rappresentatività sindacale determinato col parametro iscritti/voti riguarderà solo la rappresentatività sindacale nelle imprese – e solo in quelle – che applicano il ccnl Federmeccanica. Se, però, ci spostiamo nelle imprese aderenti a Confapi, allora questo indice di rappresentatività non potrà valere (almeno fino ad un accordo interconfederale analogo con questa associazione d’impresa). Il che implica che un cambio di contratto nazionale applicato da parte di un’impresa potrebbe modificare i dati elettorali e associativi utilizzati ai fini della misurazione della rappresentatività. Naturalmente, resta fermo che se questa misurazione ha la funzione sostanziale di selezionare i sindacati rappresentativi con cui negoziare ciò che conta è, in fondo, un dato numerico tendenzialmente indicativo della rappresentatività dei sindacati con cui le associazioni di Confindustria dovranno contrattare.
In secondo luogo, ed è la notazione più significativa su questo aspetto, colpisce l’assenza di una indicazione della soglia minima di rappresentatività sindacale necessaria per la firma dei contratti nazionali (v. in questo senso BARBIERI, op. cit, e ALLEVA, Merito e prospettive dell’accordo interconfederale 28.6.2011, in www.dirittisocialiecittadinanza.org, 4 luglio 2011). Nel documento approvato da Direttivo Cgil del 15 gennaio 2011 si faceva esplicito riferimento alla soglia del 51% di rappresentatività per poter sottoscrivere i contratti nazionali, sul modello applicato nel lavoro pubblico. Naturalmente, spetterà ai futuri accordi di categoria prevedere modalità di questo tipo; oppure si potrà prevedere forme di convalida referendaria delle ipotesi di accordo; ma se ciò non dovesse trovare regolazione – come detto prima – nulla esclude la possibilità di ritornare ad accordi firmati senza una regola di “maggioranza”.
Si delinea un dibattito sulla non retroattività dell’AI 2011 e sugli effetti sui contratti Fiat; ebbene, anche ammettendo che ciò sia rilevante, pù importante è il discorso sull’effetto provocato sui ccnl vigenti e firmati separatamente, quindi sul contratto nazionale separato 2009 dei Metalmeccanici; questo è il punto da analizzare. Orbene, una regolazione contrattuale della modalità di validazione anche dei contratti nazionali avrebbe oggettivamente messo in discussione la legittimazione (si badi bene, non la legittimità) dei ccnl oggi sottoscritti separatamente nell’area Confindustria (Metalmeccanici). Forse è proprio per evitare questa discussione che si è deciso di soprassedere.
3. La conferma della centralità strategica del contratto aziendale
Così regolata la contrattazione nazionale, l’AI 2011 è fondamentalmente dedicato a disciplinare il ruolo del contratto collettivo di secondo livello che, senza più alcun tentennamento, è solo ed esclusivamente quello aziendale. Il punto 2 dell’AI 2011 esordisce affermando che il contratto nazionale «ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale» con una definizione che di per sé può voler dire molto o poco rispetto al contratto aziendale solo interpretandolo alla luce delle competenza che l’AI 2011 affida al livello aziendale. Perciò – apparentemente, come vedremo – sembra abbandonata la tentazione, serpeggiata nei mesi scorsi, di istituire un rapporto alternativo/sostitutivo fra contratto nazionale e aziendale (di cui parla CAMUSSO, Intervista, in l’Unità, 30 giugno 2011). Tuttavia per analizzare puntualmente il ruolo del contratto nazionale occorre analizzare il ruolo che l’AI 2011 attribuisce al contratto aziendale. In questo senso, il periodo successivo della clausola n. 2 stabilisce che «la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge».
3.1. La cassazione della clausola di non ripetibilità
Osserviamo subito che – rispetto all’AI “separato” 2009 – è stato cassato il principio del ne bis in idem in base al quale non è consentito al contratto aziendale disciplinare materie già disciplinate dal contratto nazionale. Senza una clausola generale di “non ripetibilità” il contratto aziendale può disciplinare materie già previste dal livello nazionale, naturalmente solo in senso migliorativo visto che per le deroghe peggiorative occorre attivare la clausola d’uscita (sulla quale ci soffermeremo in seguito). Se non si tratta di una svista, l’AI 2011 potrebbe aver liberato la contrattazione aziendale migliorativa dai vincoli del contratto nazionale che impediscono di negoziare su materie già disciplinate dal ccnl: si pensi proprio alle ipotesi in cui una clausola in deroga possa essere compensata con un miglioramento di altri trattamenti economici o normativi disciplinati dal ccnl. Insomma, una piena liberazione del contratto aziendale dai vincoli del contratto nazionale.
3.2. La contrattazione aziendale delegata dalla legge
Quanto alle competenze delegate, la formula è identica a quella prevista nell’AI “separato” 2009 (punto 3.2) anche per l’uso del verbo «delegare» che rimanda alle funzioni normative che la legge affida al contratto collettivo. Sennonché, oggi come nel 2009, il contratto aziendale può disciplinare materie delegate dal contratto nazionale ma anche dalla legge stessa. L’AI 2011, dunque (come nel 2009) consente che il contratto aziendale possa disciplinare materie direttamente rimandate dalla legge anche se in contrasto col contratto nazionale. Infatti, l’AI 2011 avrebbe potuto limitarsi a richiamare le competenze delegate dal contratto nazionale con un richiamo delle clausole di rinvio in funzione di riorganizzazione del rapporto fra livello nazionale e livello aziendale nelle materie delegate dalla legge. Invece, si ribadisce che – per esempio – in materia di orario di lavoro, di part-time in cui la legge rinvia direttamente anche alla contrattazione collettiva, il contratto aziendale potrebbe esercitare le funzioni normative delegate a prescindere dalle disposizioni del contratto nazionale. Non dovrebbe sfuggire, però, che ciò consente anche di prevedere norme di contratti aziendali delegate dalla legge ma peggiori rispetto a quelle del contratto nazionale; con l’effetto di utilizzare il rinvio legale al livello aziendale per derogare il contratto nazionale senza neanche applicare le scarne procedure delle clausole di uscita.
3.3. La conferma accentuata delle clausole d’uscita
Confermando il modello contrattuale previsto dall’AI 2009, l’AI 2011 prevede la clausola d’uscita dal contratto nazionale (la clausola di deroga). La condizione delle clausole d’uscita è quasi identica se si compara il punto 7 dell’AI 2011 e il punto 5 dell’AI 2009: le clausole possono essere permanenti o temporanee; tali clausole possono «modificare» le disposizioni del contratto nazionale secondo procedure previste dai contratti nazionali di categoria.
Con una contorsione sintattica si stabilisce che «ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia… i contratti collettivi aziendali… d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali firmatarie del presente accordo interconfederale… possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». Questa è una clausola di uscita disciplinata e procedimentalizzata (se così si può dire) immediatamente efficace in via sussidiaria, pur in attesa che i singoli contratti nazionali disciplinino diversamente la materia.
È presumibile che la leggerezza della disciplina di questa clausola indurrà i contratti nazionali a non porre vincoli più stringenti e limitativi tipo le clausole oggi previste nei soli due ccnl dell’industria vigenti (Chimico-farmaceutico e Metalmeccanici); quantomeno dipenderà dai rapporti di forza nelle diverse categorie.
Gli unici requisiti previsti dall’AI 2011 sono che le clausole devono derivare da situazioni di crisi aziendali e per favorire investimenti produttivi (definizioni quanto mai vaghe) e che occorre l’«intesa» con i sindacati confederali territoriali. Orbene, questo secondo requisito merita due precisazioni derivanti dalla comparazione con la clausola d’uscita prevista dall’AI “separato” 2009. Può avere fondamento sostenere che l’«intesa» implichi l’unanimità dei sindacati territoriali (BARBIERI, op cit.); però si deve anche ammettere che questa intesa unitaria dei sindacati sarebbe identica alla condizione già prevista nell’AI 2009 che, anzi dava maggiore peso ai sindacati territoriali i quali avrebbero dovuto non solo «intendersi» con le parti aziendali ma avrebbero dovuto accordarsi al livello territoriale per introdurre una clausola in deroga al contratto nazionale. Peraltro, l’AI “separato” 2009 sottoponeva comunque l’accordo all’approvazione dei sindacati nazionali (nel caso del ccnl chimico-farmaceutico prevedendo una Commissione Nazionale) seppur senza risolvere – neanche qui – la questione della composizione di un eventuale dissenso: che fare se vi è dissenso fra i sindacati nazionali (o fra i territoriali) nel consentire le deroghe in mancanza di un sistema di verifica maggioritaria dei contratti nazionali e territoriali?
Quindi, la questione della modalità di gestione del dissenso fra sindacati sull’opportunità di inserire una clausola in deroga è quantomeno controversa anche perché non sono previste regole di governo del dissenso fra associazioni sindacali territoriali.
Nell’AI 2011, poi, non ci sono condizioni oggettive alle deroghe tenuto conto che la materia della «prestazione lavorativa, orari e organizzazione del lavoro» significa tutto ciò che attiene agli istituti economici e normativi di un contratto collettivo. Peraltro, mentre l’AI 2009 stabilisce che il contratto nazionale deve indicare i «parametri oggettivi quali l’andamento del mercato del lavoro, i livelli di competenze e professionalità disponibili, il tasso di produttività, il tasso di avvio e di cessazione delle iniziative produttive, la necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi investimenti» sulla cui base adottare le deroghe, l’AI 2011 si limita a indicare la finalità di «assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi»; insomma, il parametro oggettivo nell’AI 2011 finisce per coincidere con le esigenze tecnico-produttive dell’impresa.
A parziale conclusione su questo punto va detto che se si può prescindere dal contratto nazionale sia in meglio senza il principio di “non ripetibilità”, se si può derogare in peggio il contratto nazionale mediante la clausola d’uscita oppure esercitando le deleghe direttamente previste dalla legge (che, si badi bene, non sono poche), appare evidente che il contratto aziendale si delinea con una propria autonoma disciplina (sia in peggio che in meglio) del tutto diversa da quella del contratto nazionale. Pur senza nominarla, il sistema assomiglia ad un modello in cui vi è sostituzione funzionale del contratto nazionale con quello aziendale sicché appare lecito utilizzare anche per questo caso una felice osservazione riguardante la vicenda Fiat: «non più di clausole di uscita di tratta ma di uscita dalle clausole centralmente controllate» (BORDOGNA, Regole delle relazioni industriali e strategie sindacali: riflessioni sulla vicenda Fiat, in Italianieuropei, giugno 2011, dattiloscritto).
4. L’innovazione sull’efficacia del contratto aziendale
I contratti aziendali in deroga «esplicano l’efficacia generale come disciplinata nel presente accordo» (punto 7, AI 2011). Siamo così alle più autentiche innovazioni dell’intero Accordo interconfederale.
Per la prima volta si stabilisce che il contratto aziendale vincola tutti e tre i sindacati firmatari l’AI 2011 «se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti» (punto 4). Si tratta di una clausola che modifica l’Accordo interconfederale sulle RSU del 1993 relativo alla legittimazione negoziale e che non dava precise indicazioni sulla modalità di formazione della volontà unitaria della delegazione trattante, talvolta dovendosi ricorrere anche alla giurisprudenza (cfr. da ultimo SANTINI, Le rappresentanze sindacali unitarie del settore privato nell’elaborazione giurisprudenziale, in Arg. Dir. Lav., 2011, p. 425).
A differenza dell’Accordo del 1993, non c’è più un ruolo negoziale dei sindacati territoriali (tranne, come detto, nel caso di clausole di uscita) poiché oggi basterebbe la sola volontà maggioritaria delle RSU per rendere il contratto aziendale efficace e – soprattutto – vincolante per tutte le componenti sindacali le RSU. Questa clausola accentua il carattere unitario e collegiale delle RSU così superando definitivamente la tesi che ha continuato a vedere nelle RSU solo un’articolazione delle associazioni sindacali. La volontà maggioritaria che esprime la volontà negoziale della RSU concorre ad accentuare il peso della natura del rapporto di rappresentanza di tipo elettivo anziché associativo per emancipare i componenti delle RSU dal vincolo con le associazioni sindacali nelle cui liste sono eletti. Insomma, in questo modo si dà maggiore centralità alla natura unitaria dell’organismo elettivo e perciò se ne può trarre una maggiore centralità del rapporto fra delegati eletti e lavoratori elettori.
In questo senso si dovrebbe leggere anche la clausola allegata all’AI 2011 secondo cui «le categorie definiranno… regole e criteri per le elezioni delle RSU e per la consultazione dei lavoratori e delle lavoratrici per gli accordi di II livello». Non sfugge a nessuno che si tratta di una decisione molto rilevante dal punto di vista del sistema intersindacale poiché non v’è più una regolazione interconfederale ma si apre ad una differenziazione regolativa fra categorie.
Perciò non è chiaro il significato del punto 4 dell’AI 2011 in cui, invece, si richiamano le RSU «elette secondo le regole interconfederali vigenti», cioè risalenti al 1993. Insomma, da una parte sembra volersi confermare l’Accordo interconfederale del 1993 mentre dall’altra si rimanda a nuove regolamentazioni di categoria (forse anche per dare un senso alla disdetta all’Accordo interconfederale del 1993 proveniente dalla Uil?). D’altronde, una disarticolazione per categorie del sistema delle RSU appare meno drammatico a fronte di una nuova regolamentazione interconfederale di un altro sistema di rappresentanza sindacale che le relazioni industriali sembravano aver superato ma che la Fiat ha imposto nell’agenda: le r.s.a.
5. L’innovazione del ritorno alle r.s.a.
Diciamo subito che la clausola sulle r.s.a. è la maggiore sorpresa per il sistema di relazioni industriali italiano. Il punto 5 dell’AI 2011 è tutto dedicato alla disciplina delle modalità di determinazione del consenso sui contratti aziendali firmati dalle r.s.a costituite secondo l’art. 19 St. lav. attribuendovi, perciò, per la prima volta legittimazione a contrattare dopo che per 18 anni (dal 1993) il sistema si era strutturato attorno alle RSU.
Si stabilisce che «i contratti collettivi aziendali esplicano pari efficacia [si quelli sottoscritti dalle RSU] se approvati dalle r.s.a costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe…». Quindi anche in questo caso viene adottato un principio di maggioranza che riguarda il canale di collegamento rappresentativo caratterizzante le r.s.a., cioè le deleghe degli iscritti (a differenza delle RSU dove il canale di collegamento rappresentativo sono i voti di tutti i lavoratori).
Peraltro, il punto 5 prevede una modalità di composizione del dissenso fra le associazioni sindacali che esprimono r.s.a. non risolvendolo nel mero principio di maggioranza degli iscritti ma prevedendo un referendum invalidante del contratto aziendale da svolgersi qualora, contro un contratto aziendale approvato a maggioranza delle r.s.a., uno dei sindacati confederali firmatari l’AI 2011 (presumibilmente la struttura territoriale) ne faccia richiesta oppure a far richiesta fosse il 30% dei lavoratori dell’impresa. Inoltre, per invalidare il contratto aziendale occorre che al referendum partecipi il 50% degli aventi diritto al voto e che vi sia la maggioranza semplice di voti contrari.
Certamente questa clausola dell’accordo regola un istituto di origine legale (le r.s.a.) che la legge si limita a regolare solo nella discussa determinazione dei criteri per la loro costituzione. Vero è pure che l’accordo permette di disciplinare la formazione del consenso sui contratti firmati dalle r.s.a. così arrivando a disciplinare la prassi negoziale nelle imprese in cui, pur applicando i contratti di Confindustria e potendo eleggere RSU, non si è mai proceduto alla sua elezione restando legati alle r.s.a. In questo senso la clausola 5 costituisce un miglioramento dell’anomia regolativa dell’art. 19 dello Statuto, tanto più dopo che in questi mesi si è rianimato il dibattito sulla costituzionalità della norma statutaria e sui suoi paradossali e «ingiusti» effetti provocati dalla vicenda Fiat (BELLOCCHI, Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, Relazione alle giornate di studio Aidlass, Copanello (CZ), 24-25 giugno 2011, dattiloscritto).
Però, l’argomento è fragile. Non si può dire che l’art. 19 St. Lav. fosse finora senza regolazione dal momento che l’accordo interconfederale del 1993 sulle RSU è una regolazione delle r.s.a. che – si rammenti – fu adottato anche sulla spinta di una “pesante” sollecitazione proveniente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 30/90. L’accordo del 1993 è un accordo espressamente finalizzato a riempire di contenuti l’art. 19 con la precisa opzione di misurare effettivamente il grado di rappresentatività delle associazioni sindacali legittimate a costituire le r.s.a.
Ma c’è un problema di fondo. Non è solo questione di come le r.s.a. decidono in ordine ad un contratto aziendale o alla modalità di espressione del dissenso, ma in questione è la modalità di costituzione dell’organismo di rappresentanza. L’AI 2011 ha riesumato le r.s.a. come organismo di rappresentanza nei luoghi di lavoro con un salto all’indietro rispetto al 1993 e trascurando la questione costituzionale relativa alla modalità con cui la norma dello Statuto consente alle associazioni sindacali di costituire rappresentanze sindacali. Non si può non vedere come la rilegittimazione delle r.s.a. neghi le ragioni che avevano portato all’adozione del modello elettivo delle RSU. Vero è che l’espressione di tutti i lavoratori mediante il voto è comunque garantita sia nelle RSU (con l’elezione dell’organismo) sia nelle r.s.a. (col referendum invalidante); tuttavia l’espressione della volontà di tutti i lavoratori mediante il voto, nel modello r.s.a. è circoscritto all’eventualità di dissenso fra le associazioni sindacali se richiesto da quella dissenziente oppure se richiesto dai lavoratori (30%).
Questo, però, lascia immutato il problema della verifica degli indici di rappresentatività che consentono di costituire una r.s.a. dall’art. 19 st. lav. Insomma, ben diversamente da come chiesto unitariamente da Cgil, Cisl e Uil nel 2008 il ritorno alle r.s.a. ripropone la questione costituzionale di effettività rappresentativa del sindacato legittimato a costituirle (cfr. il mio Rassegna giuridico-sindacale sulla vertenza Fiat e le relazioni industriali in Italia, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2011, n. 2).
6. Efficacia del contratto aziendale e clausola di pace sindacale
Il quadro regolativo dell’AI 2011, incentrato sul contratto aziendale, si fonda sull’efficacia vincolante del contratto di maggioranza. Infatti, sia i contratti sottoscritti dalla maggioranza delle RSU sia i contratti sottoscritti dalle r.s.a. (passati indenni alla richiesta o all’esito di referendum invalidanti) «vincolano tutte le associazioni firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda». Pertanto, il dissenso collettivo su un contratto aziendale viene governato mediante la votazione in seno alla RSU oppure mediante la possibilità di promuovere un referendum invalidante e, poi, di vincerlo.
Innanzitutto va chiarito che si parla di efficacia generale senza intenderla nel senso consentito dall’ordinamento giuridico ma solo in quello dell’ordinamento intersindacale perché senza una legge attuativa dell’art. 39, il problema non si può neanche porre. Così definito il suo ambito, la clausola sull’efficacia vincolante generale per i sindacati dissenzienti sembra solo esplicitare il brocardo latino pacta servanda sunt richiamato da una parte della dottrina degli anni ’50 per desumerne l’obbligo implicito di pace sindacale a carico dei sindacati firmatari un contratto. Ma poiché sin dagli anni ’60 l’obbligo implicito di pace sindacale non ha trovato consenso né nelle relazioni industriali né in dottrina (GHEZZI, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Giuffrè, Milano, 1963) l’AI 2011 – sulla scorta dell’esempio Fiat – ha rispolverato le vecchie clausole di tregua sindacale per istituire un obbligo “esplicito” di pace sindacale (punto 6).
Non è questa la sede per tornare ad analizzare questo tipo di clausole. Possiamo però dire che quella dell’AI 2011 è una clausola abbastanza singolare perché non è propriamente una clausola di tregua come – per esempio – quella prevista nel Protocollo del luglio ’93 che presidia il periodo a cavallo della scadenza di un contratto nazionale; si tratta invece di una clausola che precisa qualcosa già assodato, e cioè che le clausole di tregua impegnano soltanto i sindacati firmatari che la sottoscrivono ma né gli altri sindacati aziendali né i singoli lavoratori che, perciò, restano liberi di scioperare in coalizione occasionale o per adesione allo sciopero proclamato da un sindacato non firmatario la clausola di tregua (da ultimo CHIECO, Accordi Fiat, clausola di pace sindacale e limiti al diritto di sciopero, in Working Paper C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 117/2011). Insomma, il dubbio sollevato dalla clausola di esigibilità degli accordi Fiat è definitivamente risolto.
Questa clausola offre una copertura intersindacale alla prassi negoziale futura ed eventuale di corredare i contratti aziendali con clausole di tregua vincolando almeno i sindacati confederali, sia aziendali presenti nelle r.s.a. o nelle RSU, sia territoriali che nazionali. Insomma, il contratto aziendale di maggioranza così vincola non solo e non tanto i singoli lavoratori all’osservanza degli obblighi contrattuali dedotti nell’organizzazione del lavoro quanto e soprattutto i sindacati aziendali affinché non s’interferisca con l’organizzazione del lavoro approvata col contratto (ancorché a maggioranza) nell’unico modo giuridico consentito: scioperando.
Naturalmente questo vincolo non riguarda il frastagliato mondo del sindacalismo extra Cgil, Cisl e Uil; intanto, però, qui ed ora, forse riguarda il mondo Cgil nell’industria e, in particolare, Fiom-Cgil. Infatti, la firma di questo AI 2011 da parte della Cgil impegnerà anche le rappresentanze sindacali Fiom e tutta l’associazione sindacale ad osservare la clausola di tregua eventualmente prevista in un contratto collettivo di maggioranza da essa non firmato; magari nel prossimo contratto Fiat per lo stabilimento di Cassino, per esempio, se Fiat deciderà di restare in Confindustria.
Naturalmente, il discorso riguarda l’efficacia intersindacale di una clausola di tregua rispetto all’azione diretta di conflitto e alla corrispettiva esigenza di “esigibilità” degli accordi aziendali. L’idea che un contratto aziendale di maggioranza possa essere esigibile limitando l’azione di conflitto è certamente legittima sul piano dell’ordinamento (seppur entro rigorosi limiti) ma apre un fronte di riflessione relativo al rapporto fra esigibilità e conflitto. Questo è il cuore dell’assetto contrattuale: organizzazione del lavoro aziendale e governo del conflitto. Si tratta di una prospettiva che ha la sua razionalità: se il sistema ha davanti a sé una stagione di contrattazione concessiva è naturale che ciò provocherà conflitti collettivi che, perciò, occorre prevenire e governare. Il futuro delle relazioni industriali italiane forse porta conflitto ed è per questo che si torna a parlare di clausole di pace sindacale. Ma come ben sanno gli storici, la pace non s’impone per Legge ma solo per volontà dei belligeranti. Ciò comporta che, in una impresa industriale, i lavoratori iscritti al sindacato vincolato dalla clausola di pace basterà costituire un comitato x (senza cambiare tessera sindacale) e proclamare uno sciopero; ecco allora che la clausola di pace perde efficacia. E non sarà semplice argomentare sul mancato esercizio del dovere di influenza sui lavoratori scioperanti.
In fin dei conti, questa è la ragione per la quale queste clausole hanno avuto vita breve nel nostro sistema di relazioni industriali. Non sono le clausole di tregua che portano alla pace sindacale ma è la pace sindacale a portare alle clausole di tregua. Non sono le clausole di tregua a poter efficacemente proteggere l’organizzazione del lavoro dal conflitto collettivo ma è la medesima organizzazione (comunque contrattata) a poter prevenire il conflitto collettivo mediante un effettivo consenso su di sè.