Sulla vicenda di Pomigliano scelgo di esaminare tre particolari aspetti, attinenti le relazioni industriali: Europa, deroghe e tempi del negoziato.
Europa: la Polonia torna all’attenzione della cronaca, dopo essere stata l’oggetto dello scandalo ai tempi (maggio 2005) del referendum francese sulla proposta di trattato costituzionale europeo, a causa della sindrome dell’idraulico polacco, come venne sintetizzata. Detonatore fu la direttiva servizi proposta da Frits Bolkestein a nome della Commissione Prodi: la paura di dumping che ne poteva scaturire spinse i cittadini francesi a bocciare il testo del trattato, provocando altresì emendamenti alla stessa direttiva servizi. Nei fatti ci trovammo di fronte ad una protesta nei confronti della tradizionale afasia comunitaria in materia di lavoro. La protesta trovava un habitat naturale in Francia, paese nel quale la presenza dei sindacati, come corpo intermedio per stare al nostro lessico, non ha rilievo, essendo portato secolare della rivoluzione dell”89.
La notazione mi serve perché è stato osservato che proprio l’assenza di corpi intermedi porta ad un rapporto verticale cittadino-Stato privo dell’elemento fondante delle relazioni industriali. Il sostantivo della locuzione esprime la capacità di rapporto orizzontale attraverso il quale poniamo un problema, ne esplichiamo gli aspetti qualitativi e quantitativi, ne troviamo possibili soluzioni sulle quali negoziamo e ricerchiamo accordi. Infatti i francesi non si parlano, come ammetteva l’ex primo ministro Michel Rocard in un dibattito con il commissario europeo Bolkestein sui fatti del maggio “francese” 2005. Se vogliamo riportare al centro dei nostri interessi la persona, dobbiamo riflettere sulla collocazione del “lavoro” nella costruzione europea, perché è forte la delusione rispetto alla situazione attuale. Certo non aiuta l’assenza di leader autorevoli, che abbiano la statura per affrontare un compito così gravoso e rilevante (penso a quel che ha rappresentato Jacques Delors).
Il dato comparativo non si esaurisce nel confronto impari tra Italia e Polonia (non possiamo dimenticare però che negli anni ’50 i polacchi d’Europa eravamo noi!), ma si dovrebbe allargare agli USA e in particolare all’accordo tra Chrysler e UAW. Soffermiamoci sul punto della sanità e assistenza malattia che ha provocato doglianze anche a Pomigliano. Con accordo del 2007 Chrysler riconosce un debito di 16 miliardi di dollari a favore del Fondo di assistenza sanitaria dei propri ex dipendenti; nel 2008 essa riceve un primo prestito di 4 miliardi dall’amministrazione Bush, non sufficienti a rimetterla in sesto, provocando l’intervento dell’amministrazione Obama. Questa condiziona l’erogazione ulteriore di 8 miliardi alla rinegoziazione dell’accordo complessivo del 2007 (nel senso che esso non riguardava solo la sanità privata) da concludersi nel giro di un mese. L’accordo viene raggiunto ad aprile 2009 e quanto al punto qui considerato il debito viene abbattuto transattivamente a 4,5 miliardi da versare in rate annuali che vanno dal 2010 al 2023, mentre la parte restante viene prevalentemente convertita in azioni della Società (55% del capitale con diritto di nomina di 1 consigliere sui nove componenti -5 espressi dal Governo e 3 dalla Fiat). Giulio Sapelli aveva scritto alla fine di marzo 2009 che “non si vince la crisi senza doveri e responsabilità sociale e senza l’associazionismo che lo Stato permette e incoraggia, ma non crea artificialmente”. Le deroghe contrattate a Detroit aiutano a introdurre il secondo aspetto.
Le deroghe: scelgo di imperniare il mio breve esame sulla dichiarazione di Sergio Cofferati, che nella sostanza mi pare abbia affermato che il sindacato non può concedere deroghe al contratto nazionale a favore di un’azienda così importante come la Fiat, perché queste si estenderebbero alla maggior parte delle altre imprese. Tale argomento mi sembra coerente con la lettera allegata dalla Cgil all’accordo 15 aprile 2009 sul riassetto dei livelli contrattuali tra Confindustria e gli altri sindacati. Come ha fatto notare Arturo Maresca se la Cgil avesse firmato l’accordo del 2009, avrebbe avuto maggiori margini di manovra su Pomigliano perché la clausola n.5 dell’accordo interconfederale sottopone le deroghe ad un regime garantista per sindacati e loro rappresentati. La posizione ora descritta mi sembra antistorica e contraddittoria.
Antistorica perché il contratto nazionale in Italia è quello che è grazie al travaso progressivo del patrimonio della contrattazione aziendale: non credo che debba spendere molte parole sul tema. Dopo aver ottenuto il riconoscimento del doppio livello di contrattazione (non molto diffuso negli altri paesi, evoluti e no), se il sindacato vuole ricreare condizioni di un circolo virtuoso non può pensare solo a operazioni di addizione, zittendo la controparte sulle sue esigenze.
Contraddittoria perché la Cgil, per esempio nella chimica (settore non banale), ha firmato già nel 2006 contratti nazionali suscettibili di deroghe a precise condizioni. Passiamo al terzo aspetto.
I tempi del negoziato: Giuseppe Berta, profondo conoscitore della Fiat e della sua storia, si è chiesto se il negoziato non sia partito troppo presto rispetto al tempo necessario perché fosse compreso appieno il piano industriale che ne è alla base (possiamo ricordare ora la frase di Rocard “noi francesi non ci parliamo”). La ragionevolezza di questa osservazione mi permette di ampliare l’orizzonte, perché molti osservatori hanno scritto che l’accordo è certamente basato sul piano industriale, ma contemporaneamente si pone lo scopo di introdurre regole che agevolino il governo di uno stabilimento “difficile”. Valga a questo fine un episodio, riferito da Enzo Mattina (ex segretario generale della Uilm), sul quale s’è soffermato Massimo Mascini. Mattina ha raccontato che un bel giorno recatosi a Pomigliano trovò tantissimi dipendenti in fila all’infermeria: avendone chiesto il motivo, si sentì rispondere che erano andati a farsi dare un’aspirina perché l’inflazione aveva provocato loro il mal di testa. Scontando le inevitabili forzature, direi che è un’ottima battuta, ma poiché il lavoro è una cosa seria, mi chiedo: innanzitutto i capi che cosa fecero? E tra i sindacalisti, ce ne fu qualcuno che spiegò a quei lavoratori che l’abuso, in ogni tempo e in ogni luogo, vanifica la tutela dei loro diritti? Forse anche su quel tempo converrebbe riflettere, per vedere come sia stato speso.
Raffaele Delvecchio, sindacalista d’impresa