Marco Biagi
1. Una riforma sottovalutata
La recente riforma costituzionale sul federalismo ha introdotto novità di enorme portata anche nella materia dei rapporti di lavoro. E’ davvero sorprendente che su questa travagliata vicenda parlamentare molto si sia dibattuto sul piano politico-procedurale e ben scarsa sia stata l’attenzione rivolta ai contenuti. Anche perché se si approfondiscono almeno alcuni profili del provvedimento, appare davvero sconcertante che una rivoluzione silenziosa di questo genere sia stata varata per un pugno di voti in più (almeno alla Camera dei deputati), prevalendo di così stretta misura su un’opposizione decisa a non collaborare. Ed è proprio per i contenuti altamente innovativi che sembrerebbe oltremodo raccomandabile l’indizione di un referendum confermativo, al fine di rendere l’opinione pubblica davvero consapevole della portata stessa della riforma.
Appare del tutto indubitabile infatti che anche in materia di lavoro la riforma costituzionale sul federalismo possa determinare quella che senza enfasi si può considerare una vera e propria rivoluzione. Tutti noi, studiosi ed attori nel mondo dei rapporti di lavoro, siamo stati educati sul presupposto che l’intervento pubblico in questa materia fosse di competenza statale. Certo, negli ultimi tempi, in virtù del processo di trasferimento amministrativo, le Regioni sono divenute titolari della gestione dei servizi per l’impiego. Ma cosa ben diversa è il completo rovesciamento di prospettiva operato dalla riforma costituzionale che anche in materia di lavoro assegna alle Regioni il ruolo di assolute protagoniste. In sostanza, così come da sempre sono le autorità regionali a fare la politica della formazione, seppur entro una cornice definita dal Governo nazionale, ed oggi sempre più dalla stessa Unione europea, allo stesso modo in futuro accadrà in materia di lavoro.
2. Le nuove competenze regionali in materia di lavoro
La chiave di volta della riforma è contenuta nel nuovo art. 117 della Costituzione, così come sostituito dalla nuova legge. La regola generale è ora quella per cui fra le ‘materie di legislazione concorrente’ occorre considerare la ‘tutela e sicurezza del lavoro’. Si tratta certamente di una formula che può lasciare a prima vista stupiti ed increduli, tanto da far pensare ad un infortunio in cui sia incorso il legislatore costituente.
E’legittimo domandarsi in proposito se in realtà non si sia voluto far riferimento alla ‘tutela della sicurezza del lavoro’. La tentazione di sostituire alla congiunzione ‘e’ un lettura più restrittiva è senz’altro comprensibile. Non a caso un appello sottoscritto da insigni giuslavoristi qualche tempo fa invitava a rivedere in tal senso il progetto di revisione costituzionale. Ma, si sa, in questo genere di riforme con doppia lettura parlamentare il testo originario percorre necessariamente ‘blindato’ l’intero cammino parlamentare. E così ci ritroviamo una formula che recita nel senso che si è riportato.
Occorre fra l’altro tener conto del fatto che i lavori parlamentari non sembrano giustificare alcuna interpretazione manipolativa o comunque restrittiva del testo approvato. La relazione della prima Commissione permanente della Camera dei deputati (Affari costituzionali, della presidenza del Consiglio e Interni), presentata alla presidenza il 19 febbraio 2001, è assai chiara a riguardo. Si riprende letteralmente la formula della legge, ribadendo che è oggetto di nuova regolazione il campo della ‘tutela e sicurezza del lavoro’ . Era questa l’occasione migliore per legittimare eventuali letture correttive da apportare ad un testo eventualmente ritenuto impreciso. Questo non è avvenuto ed è sicuramente un dato fondamentale nel processo ermeneutico che si svolgerà a riguardo.
Il legislatore costituente si è espresso quindi in un modo di cui occorre doverosamente prendere atto. Fra l’altro è ben chiaro che lo Stato ha mantenuto competenza esclusiva a legiferare su varie materie fra cui è citata espressamente la ‘previdenza sociale’ . Invece per quanto si riferisce alla ‘previdenza complementare ed integrativa’ si transita al regime di legislazione concorrente. E’ appena il caso di sottolineare come questo spostamento di focus costituzionale potrà offrire alle Regioni un campo di azione davvero enorme. La previdenza complementare ed integrativa regionalizzata comporterà senz’altro l’esaltazione del ruolo delle parti sociali in questo ambito territoriale.
Non è possibile pervenire a diverse conclusioni anche per la ‘tutela e sicurezza del lavoro’ . Il senso interpretativo da attribuire all’espressione è quello di riconoscere particolare priorità all’intervento legislativo in tema di salute e sicurezza sul lavoro, senza tuttavia rinunciare ad un intervento sulla ‘tutela’ del lavoro in generale. Chi volesse interpretare la formula richiamata nel senso di leggervi solo un rinvio al tema dell’ambiente di lavoro, farebbe un’operazione ermeneuticamente infondata. Non che l’ambiente di lavoro sia un tema limitato. Al contrario, già riconoscere la competenza delle Regioni in materia sarebbe di per sé una rivoluzione istituzionale, soprattutto comprendendo nella nozione le conseguenze sul piano della regolazione del tempo di lavoro, così come ci autorizza a fare la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee.
Il termine ‘ tutela’ è del resto ben sperimentato nel quadro della nostra cultura costituzionale. Non a caso esso viene utilizzato nell’ art. 35 della Costituzione, rimasto inalterato (‘La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni’ ). Non può essere casuale che il legislatore ricorra proprio ai termini ‘ lavoro’ e ‘ tutela’ , in luogo di altri (‘ protezione’, ‘occupazione’) che pure avrebbero potuto essere utilizzati con allusione ad una diversa qualità dell’ intervento.
3. La portata della ‘legislazione concorrente’
Anche in materia di lavoro, e non soltanto, come oggi, in virtù del trasferimento funzionale dei servizi per l’impiego, spetterà alle Regioni ‘ la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato’ , come recita il nuovo art. 117. Dunque l’iniziativa potrà essere assunta dal legislatore regionale che dovrà rispettare ‘principi fondamentali’ definiti a livello nazionale.
Sembra perfino superfluo sottolineare il fatto che il legislatore statale non potrà provvedere alla regolamentazione delle materie oggetto di legislazione concorrente con interventi dettagliati. Anzi, si porrà subito la questione dell’adattamento o revisione dell’attuale legislazione, soprattutto quella diretta a regolare il rapporto di lavoro subordinato, che è stata storicamente emanata nel presupposto del tutto antitetico di una competenza esclusiva statale.
Potrebbe essere finalmente questa l’occasione non soltanto per emanare leggi-quadro o cornice, ma anche per innovare nelle stesse tecniche di regolamentazione. Potrebbero essere sperimentate le c.d. soft laws (letteralmente, norme leggere), sempre più utilizzate in sede comunitaria, comprendenti le linee-guida, le buone pratiche con la loro trasferibilità da un contesto (anche regionale) all’altro, la logica della peer pressure (ovvero peer review), cioè il sistema di reciproco controllo e quindi di mutua pressione esercitato fra soggetti istituzionali che agiscono su un piano di parità.
Non è troppo ardito immaginare che il metodo del ‘coordinamento aperto’ oggi crescentemente sperimentato in sede comunitaria per regolare i rapporti tra gli Stati membri dell’Unione europea, sottraendoli alle logiche dirigistiche delle direttive, possa essere esteso al nostro contesto costituzionale, così innovato dalla recente riforma. Innescare una logica di sana competizione fra le Regioni, riconoscendo allo Stato il ruolo di coordinatore-stimolatore, potrebbe davvero dare risultati estremamente interessanti.
Fra l’altro si tenga presente che nell’ambito della legislazione concorrente rientrano ora anche ‘ i rapporti internazionali e con l’Unione europea’ . Tale formula non soltanto legittima finalmente la possibilità delle Regioni di stabilire rapporti internazionali utili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ma autorizza anche a definire meglio i rapporti fra il livello comunitario e quello regionale. Così come già oggi in materia di formazione le Regioni interagiscono direttamente con la Commissione europea, allo stesso modo domani esse potranno stabilire un’interlocuzione diretta in materia di occupazione e di affari sociali. La ‘strategia europea per l’ occupazione’ , ivi inclusa la redazione annuale del ‘Piano di azione per l’occupazione’ (Nap), dovrà ora vedere le Regioni co-progettiste con il Governo di questo fondamentale strumento di azione.
4. Quali conseguenze della ‘rivoluzione costituzionale’ in materia di lavoro?
E’ assolutamente prematuro fare previsioni sulla portata dell’innovazione fin qui discussa e che comunque appare rivoluzionaria. Fra Stato e Regioni, almeno con alcune di esse, è facile prevedere che si aprirà un confronto assai impegnativo. Parrebbe logico che, in aggiunta alle competenze in materia di formazione e di servizi per l’impiego, le Regioni possano iniziare a legiferare con maggiore libertà in materia di mercato del lavoro. Più delicato è ipotizzare un intervento sul rapporto di lavoro ed in materia sindacale. Anche se sembra possibile sostenere che l’impianto legislativo del tutto uniforme tuttora vigente subirà con il tempo una forte opera di erosione.
L’opera che Stato e Regioni hanno di fronte è di proporzioni gigantesche. Occorre davvero ridisegnare tutto. Prendiamo qualche esempio, innanzitutto in materia di mercato del lavoro. Occorrerebbe rivedere la legislazione nazionale in tutte le disposizioni riguardanti l’intervento dei privati, dal lavoro interinale, alle agenzie di collocamento propriamente dette, fino ai casi delle società di selezione di personale malamente disciplinate dall’ultima Finanziaria. Sarebbe sufficiente affermare in una legge-cornice che il loro intervento è ammesso nelle forme e nei modi previsti dalla legislazione regionale. Starebbe poi alle Regioni fare le proprie scelte. Ben sapendo che in alcuni contesti esiste ancora senz’altro il problema del caporalato e quindi la cautela in materia è d’obbligo, mentre in altri la sperimentazione potrebbe avvenire con maggiore decisione.
Non ci si può nascondere la delicatezza di interventi-quadro che riguardino la disciplina del rapporto di lavoro. Ancora una volta facciamo un esempio concreto, forse il più controverso di tutti, quello del licenziamento individuale. La legislazione nazionale dovrebbe riconfermare il principio della giustificatezza dei motivi addotti a sostegno del recesso del datore di lavoro, così come recentemente ha fatto la Carta dei diritti comunitari fondamentali proclamata a Nizza. Potrebbe essere ammissibile un rinvio alla legislazione regionale per definire la conseguenze del licenziamento illegittimo?
Certo, la prospettiva di uno Statuto dei lavoratori riveduto come legge-cornice, con rinvio alle Regioni, è sicuramente gravida di incognite e di rischi che non possono essere sottaciuti. Fra i quali occorre annoverare il riprodursi all’interno del contesto nazionale di una situazione di dumping sociale determinato dalle Regioni che intendano attrarre investimenti rivedendo le soglie di tutela del lavoro dipendente. Ancora una volta sarà necessario riflettere attentamente, distinguendo tra diritti fondamentali, da ribadire in sede statale, e materie invece suscettibili di legislazione concorrente, quindi in sostanza devolute all’iniziativa regionale.
E’ anche l’ intero scenario delle relazioni industriali che sembra destinato a mutare. Parlare a questo punto di ‘federalismo contrattuale’ o, quantomeno, di ‘regionalizzazione’ della contrattazione collettiva, appare una logica conseguenza. Del resto, anche in Germania l’impianto federale è risultato fondamentale nel determinare l’assetto negoziale che intercorre fra le parti sociali. Di fronte alla scelta così rivoluzionaria adottata dal legislatore costituente l’attuale dibattito sulla revisione degli assetti contrattuali assume necessariamente una diversa ottica.
Una volta che le Regioni avranno iniziato pienamente ad esercitare le loro attribuzioni di ‘ legislazione concorrente’ in materia di ‘ tutela e sicurezza del lavoro’ , sarà conseguente una profonda riorganizzazione delle parti sociali. Associazioni imprenditoriali ed organizzazioni sindacali dovranno concentrare sempre più l’attenzione al livello regionale e questo influenzerà profondamente la stessa contrattazione collettiva.
Il rapporto tra legge e contratto si stabilirà crescentemente a livello regionale, che diventerà l’architrave del sistema contrattuale. Sempre più le intese nazionali si avvicineranno alle intese quadro, proprie dell’esperienza comunitaria, mutando quindi completamente funzione. Il contratto collettivo nazionale di categoria, così come lo abbiamo conosciuto in questi decenni, non è certamente strumento utile ed omogeneo rispetto al nuovo assetto costituzionale.
Non mancheranno interventi riduttivi, in senso giuridico-interpretativo ed anche politico, della nuova norma costituzionale in materia di lavoro. Le nostalgie centralistiche e stalistiche saranno fortissime. Non soltanto lo Stato, ma anche le parti sociali avvertiranno la sensazione di colui al quale, come dice il motto popolare, si sfila il tappeto sotto i piedi. E la tendenza a ribellarsi, quasi a scalciare, è comprensibile, ancorché non giustificata. Effettivamente si tratta di un’innovazione così profonda che, come si diceva all’inizio, la tentazione di una rilettura che la ridimensioni è assai forte.
Sarebbe però un errore cedere alla tentazione di una interpretazione ‘ normalizzatrice’ , tenuto conto che anche in altri Paesi dove il federalismo ha toccato i temi del lavoro (Stati Uniti e Germania, seppure in modo assai diverso) i risultati sono stati interessanti. Occorre piuttosto saper cogliere tutte le potenzialità del nuovo ordinamento costituzionale: legiferare, negoziare e, perché no, concertare a livello regionale sarà la regola, non l’eccezione. Chissà che non si riescano a modernizzare in questo modo le relazioni industriali italiane.