Giovedi l’ispettorato del lavoro ha diffuso i dati sulle dimissioni volontarie. Su 51 mila casi registrati, 37 mila, cioè il 73%, riguardano donne con figli. Sui media ovviamente si è scatenata la solita polemica sulla mancanza di supporto alla famiglia, alla maternità gli asili nido, le tate, eccetera. Vero, manca anche questo. Ma si parte dal punto di vista sbagliato, se si leggono quei dati solo in un ottica di mancanza di servizi. La verità è un altra, o almeno anche un altra, e si chiama “gender pay gap”. Ovvero, quella differenza di retribuzione tra uomini e donne che si continua a far finta di non vedere ma che c’è, eccome, e pesa anche nelle scelte come quelle registrate dall’Ispettorato. Ora vi spiego perché, ma prima occorre sorbirsi un po’ di numeri. Cominciamo.
Secondo i dati Istat, circa la metà delle donne in età da lavoro non lavora, e circa la metà delle donne in età riproduttiva non ha figli. Ci sarà un nesso? Certo la coincidenza è curiosa. Una prima risposta la dà ancora l’Istat: il tasso di occupazione delle donne tra 25 e 49 anni, in coppia ma senza figli, è del 71 per cento. Di quelle con figli: 56 per cento. Ma il tasso di occupazione più alto in assoluto riguarda coloro che l’Istat definisce “persone sole”, cioè donne (o uomini, certo) che oltre a non aver figli non hanno nemmeno un partner, marito o convivente o quel che sia, e che vantano un tasso di occupazione pari all’81per cento.
Riassumendo: l’Italia del lavoro è un paese per donne single e senza figli.
Ma ecco altri numeri interessanti. Notoriamente, in Italia le donne laureate sono di più rispetto agli uomini. Però: meno della metà delle madri laureate lavora a tempo pieno, contro il 60 per cento delle laureate senza figli. E lavorare part time significa stipendio più magro e meno possibilità di avanzamenti di carriera. Uno studio dei Consulenti del Lavoro afferma che nel 2017 oltre la metà delle lavoratrici era stata assunta con contratti part time, e una su tre riceveva uno stipendio inferiore a 780 euro. Vale la pena di ricordare che 780 euro è anche la cifra che indica la soglia di povertà, tanto che su essa è stato tarato il reddito di cittadinanza.
Questo porta a un’altra assai poco considerata, ma inevitabile, conseguenza: quando diventa difficile far coincidere la gestione della famiglia con il lavoro, e uno dei due genitori deve restare a casa, a badare ai figli, tocca a quello che guadagna meno e che ha meno chance di carriera. E’ per questo motivo che il 22 per cento delle donne lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio, percentuale che balza a oltre la metà dopo il secondo. Ed è anche per questo motivo che nel 2019 quelle 37 mila donne con figli si sono dimesse dal posto di lavoro.
C’è anche questo a disincentivare il lavoro femminile: le paghe basse. Nella fascia di reddito da 1.500 a 2000 euro, dicono ancora i Consulenti del lavoro, gli uomini sono il doppio delle donne, e per i redditi più alti il rapporto è di una a tre. Un ostacolo in più, che si aggiunge all’ostacolo numero uno, che resta sempre la difficoltà di conciliare lavoro e figli. Un possibile aiuto si pensava potesse arrivare dalla tecnologia, nello specifico dallo smart working, che moltissime aziende ormai applicano e che consente di lavorare da casa senza l’obbligo di presenza in ufficio. Tuttavia, dalle prime analisi emerge che proprio le donne la utilizzano meno rispetto agli uomini. Motivi: il timore che restare ‘fuori’ dal luogo di lavoro significhi un maggiore isolamento, ma anche la consapevolezza che troppo spesso il lavoro “a casa”, sommato a quello “di casa”, costituisce un mix più pesante dell’ufficio stesso. E non retribuito.
Dunque, concludendo: non compiangeteci, non ci serve e non ci piace: piuttosto, pagateci meglio, il giusto e il dovuto. E vedremo se quei dati sulle dimissioni delle lavoratici madri caleranno. Secondo me, si, eccome.
Nunzia Penelope