Articolo 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Articolo 51: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Dichiarazioni formali di parità e uguaglianza attraverso le quali le donne italiane dovrebbero sentirsi tutelate in materia di accesso e permanenza nel mondo del lavoro. Il condizionale, però, è lo specchio di una situazione totalmente ribaltata, in cui lo sguardo della popolazione lavoratrice femminile è attraversato da disincanto, delusione e rassegnazione. Amarezza per quello che sarebbe dovuto essere e invece non è. Amarezza sostanziale per quello che si è. L’Italia è avvolta nelle spire di un sistema culturale e politico tutto a svantaggio delle donne, che si autoalimenta di immobilismo o al più di troppo timidi passi avanti: dopo una grande stagione di riforme iniziata nel dopoguerra e terminata nel 1996, dagli anni Novanta a oggi, in 30 anni, è cambiato poco o nulla. Le italiane sono stabilmente ultime in Europa in materia di parità sul lavoro (Eige, Gender Equality index 2022). In Italia lavora poco più del 50% delle donne, spinte come sono ad abbandonare il posto da mille ostacoli posti lungo il cammino. «Non basta mettere nero su bianco che la discriminazione non dovrebbe esistere, bisogna creare le condizioni perché questi diritti siano esigibili». Non bastano dichiarazioni di intenti, leggi, proclami che nei fatti restano per lo più lettera morta. Quello che occorre è un ribaltamento degli assetti. Una rivoluzione.
Ed è Rita Querzè a segnare il punto con la sua nuova pubblicazione Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse (Post Editori, 2023). Giornalista economica del Corriere della sera, «una delle poche voci capaci di illustrare e spiegare le tante contraddizioni del mercato del lavoro e in particolare lo scottante problema del lavoro femminile», come evidenzia nella prefazione Maurizio Ferrera, Querzè ci offre la summa di un problema ormai endemico del nostro Paese, che ci sta letteralmente divorando dall’interno, attraverso due premesse fondamentali: più occupazione femminile significa più crescita; il lavoro delle donne contribuisce a ridurre la vulnerabilità economica delle famiglie, con ricadute positive anche sulla natalità (nei Paesi dove i tassi di occupazione femminile sono più elevati, anche i tassi di natalità sono più elevati). Ma le pari opportunità, sottolinea Querzè, «vanno date non perché è utile e vantaggioso “per l’economia” e “perché serve a garantire il pagamento delle pensioni”, ma prima di tutto perché è giusto. I diritti non possono essere subordinati a questioni di opportunità». Nei fatti queste due premesse sono ostacolate da una mentalità e una cultura tradizionali, in cui alla donna è affidato “per natura” tutto l’onere del lavoro di cura e della gestione domestica, e dall’inadeguatezza ed erraticità delle politiche pubbliche, dell’insieme di regole e interventi dello Stato nella sfera del lavoro, delle relazioni familiari, del fisco e delle prestazioni sociali. Pertanto «occorre lavorare su due fronti: riforme dall’alto e cambio di mentalità dal basso».
Accesso al lavoro, condizioni contrattuali, retribuzioni, carriere sono come livelli di un videogame che ogni donna che si affaccia al lavoro deve affrontare, una continua corsa al compromesso tra una vita privata soddisfacente e un lavoro quantomeno appagante, in cui il più delle volte a soccombere sono le ambizioni personali e, soprattutto, familiari. Per le donne la libertà di lavorare è un’illusione poiché grava sui loro destini il momento latente della maternità. Per questo motivo in Italia sempre più donne si dichiarano childfree, ma alle direzioni del personale questa presunzione di non maternità non basta ad scongiurare il rischio di disagi sul piano organizzativo portati da una gravidanza, giacché nel nostro Paese, secondo i dati Ocse, il 70% del lavoro di cura è svolto dalle donne. L’Italia, inoltre, è il Paese in Europa con la divisione più iniqua del lavoro domestico tra uomini e donne. Quest’ultime se ne fanno carico per il 70%, dedicando 175 minuti in più al giorno al lavoro domestico rispetto ai mariti e compagni (dati Istat). Da ciò derivano le disparità di trattamento per le donne nel mercato del lavoro. Se si sommano lavoro retribuito e non, poi, le italiane lavorano 88 minuti in più, poco meno di un’ora e mezza al giorno, rispetto ai loro mariti e compagni. Senza contare, tra gli ostacoli legati alla maternità, i casi di demansionamento o disincetivazione al rientro, a differenza di quanto accada ai neo-padri che spesso ottengono bonus e progressioni di carriera. A contribuire alla criticità del quadro c’è anche l’apparato dello Stato con il suo sistema fiscale e il suo welfare, che spinge le lavoratrici a rinunciare alle occupazioni retribuite per sostituirle con il lavoro casalingo, come il congedo parentale al 30% (laddove una donna guadagna meno del compagno neo-padre, la sua retribuzione sarà minore); le detrazioni per il coniuge a carico; l’assegno per i figli (pur con uno stipendio basso, le donne lavoratrici contribuiscono ad aumentare l’Isee e a far perdere progressivamente peso all’assegno). Quasi 38mila delle 52 mila dimissioni di genitori con figli, infatti, secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro, riguardano le donne. «Madri che dichiarano di fare questa “scelta” per l’impossibilità di conciliare le attività familiari con il lavoro a causa della mancanza di servizi. Il 73% delle dimissioni di un genitore nel primo anno di vita del bambino riguarda una donna». Secondo l’analisi di Querzè sono tre i fattori che portano alla rinuncia al lavoro retribuito da parte delle donne: un’organizzazione taylorista del lavoro, che presuppone un lavoratore disponibile al 100%; uno Stato che non investe sui servizi di cura, dagli asili nido gratuiti agli sgravi fiscali per chi assume colf e badanti; mariti/compagni che si fanno troppo poco carico del lavoro domestico. A questo proposito, l’autrice si sofferma sulla sostituzione dell’idea di conciliazione con quella di condivisione: «Solo dividendo i compiti domestici si risolve il problema alla radice e in modo equo. L’iniqua divisione dei compiti di lavoro domestico deve smettere di essere un problema privato delle donne e degli uomini per diventare un questione pubblica, collettiva», mettendo in campo «servizi e agevolazioni per permettere alle famiglie di esternalizzare almeno una parte del lavoro di cura stesso».
Quanto invece al tema del gender pay gap, se in Europa il divario retributivo medio tra uomini e donne per ogni ora lavorata è del 12,7%, le italiane guadagnano il 15,5% in meno l’ora nel privato e il 5,5% in meno nel pubblico. Sui conti di fine anno, inoltre, pesa il fatto che le donne lavorino anche meno ore venendo loro proposti più spesso contratti precari e flessibili (le donne con contratto a orario ridotto in Italia sono il 31,6% contro il 9,1% degli uomini, Gender policies report dell’Inapp) e inadeguatezza dell’orario che comporta una flessibilità subìta a vantaggio dei bisogni dell’azienda. «Se hai un posto di serie B è perché le imprese sanno che prima o poi farai un figlio». I numeri confermano l’analisi: «Poco meno del 60% del part time femminile è involontario e se si mettono insieme meno ore retribuite e retribuzioni orarie più basse si scopre che le donne in Europa ogni anno si mettono in tasca il 36% in meno degli uomini, ben il 43% in meno in Italia». Sul gender pay gap pesa anche la segregazione salariale: le donne guadagnano di meno perché lavorano nei settori con le retribuzioni più basse («nel 40% dei casi sono occupate tra commercio, sanità, assistenza sociale e istruzione, settori in cui la contrattazione o si è fermata o ha adeguato più lentamente gli stipendi»). Risultato: le pensioni delle donne sono più leggere.
Ma le donne guadagnano meno anche perché hanno ristrette possibilità di fare carriera e quando la fanno vengono pagate di meno a parità di ruolo (secondo i dati Eurostat, le dirigenti donne guadagnano il 23% in meno l’ora rispetto ai colleghi maschi). Anche se le donne sono arrivate a essere il 20,5% dei manager e un dirigente su 5 è donna, a conti fatti le amministratrici delegate sono solo il 2% e le presidenti il 4%. In Italia grazie alla legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate, in 5 anni, le donne nei CdA sono passate dal 7 al 31,6%. Ma Querzè sottolinea la discrasia della disposizione: «L’esistenza della Golfo-Mosca è una sconfitta, poiché certifica che il mercato, da solo, non riesce a produrre una divisione equa delle opportunità. L’applicazione della legge in modo formale, senza cambiare anche la mentalità e senza favorire la crescita delle donne a partire dai livelli più bassi delle gerarchie aziendali, per preparare le consigliere del futuro, non è sufficiente. Occorre un cambio di mentalità, a partire dalla crisi del cliché del comando/controllo che coincide con la crisi dell’idea di carriera come una scalata senza interruzioni della piramide gerarchica». Dare stimoli, incentivi, responsabilizzazione di tutti i dipendenti; riformare l’organizzazione aziendale e rendere meno onerosa la certificazione di genere per le aziende, premiando di più le imprese che la adottano In più la legge Golfo-Mosca si rivolge alle aziende quotate in borsa, escludendo le Pmi, la stragrande maggioranza in Italia. Attualmente, per favorire la crescita delle donne nelle Pmi al l’unico strumento è la certificazione di genere. Le aziende che hanno affrontato la certificazione segnalano l’importante onere burocratico legato alle pratiche per la certificazione stessa.
La “rivoluzione in sei mosse” per cambiare la realtà non è un atto subitaneo, non bastano le buone intenzioni e le teorie aleatorie delle élite intellettuali e politiche. Solo uniti si vince, uomini e donne insieme, perché «una maggiore equità di trattamento tra uomini e donne sul lavoro non è “contro” qualcuno, ma “per” qualcosa”». È la mentalità a dover essere cambiata. Non solo: «La discussione deve uscire dall’accademia e diventare popolare», trapiantarsi dai salotti del femminismo medio-alto borghese alla strada, alla piazza, a tutti i luoghi di lavoro trasversalmente intesi. «Un femminismo popolare è quello che aiuta donne e uomini insieme a porsi domande nuove. Con l’obiettivo non di passare al patriarcato al matriarcato, ma a una società più equa […] uscire dalla bolla dei circoli ristretti, cercare soluzioni sostenibili per tutte, non soltanto per le donne dei ceti sociali medio-alti. Creare connessioni e dialogo anche con gli uomini. Le donne con un più alto grado di consapevolezza e ruoli da cui era possibile provare a incidere, in questi trent’anni si sono battute più per infrangere il “soffitto di cristallo” che impediva (e impedisce) la loro ascesa ai più alti livelli di carriera che per abbattere le pareti di cemento del mercato del lavoro che impediscono in Italia al 50% circa delle donne l’accesso a un’occupazione ben retribuita […] e se il vero modo per far crollare il soffitto fosse allargare le pareti della stanza?».
Con Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse Rita Querzè ci offre non l’ennesimo contributo su un tema che per quanto al centro della discussione risulta essere a latere delle urgenze politiche, ma un tassello nel mosaico della consapevolezza che chiama tutti, indistintamente, all’azione. La sua posizione non è quella dell’intellettuale che si erge dalla cattedra per offrire una verità inaccessibile, ma della donna che parla ad altre donne e agli uomini mettendo loro sotto il naso una brutale evidenza che pure si continua a ignorare “perché si è sempre fatto così”. Attraverso un linguaggio fuori da ogni sofisticazione, ma piuttosto inclusivo e pregnante, con il contributo di dati e testimonianze dirette sapientemente intessuti dall’esperienza della giornalista di razza, questo volume detiene innanzitutto il merito dell’incisività del messaggio: l’ultima chiamata collettiva per invertire la rotta della deriva in corso.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse
Autore:Rita Querzè
Editore: Post Editori
Anno di pubblicazione: 2023
Pagine: 201 pp.
ISBN: 979-808296-2-7
Prezzo: 22,00€