Mala tempora currunt per Giorgia Meloni. Nei giorni scorsi, in mezzo ad un tripudio di femminismo d’antan, ha licenziato in tronco un compagno, padre di sua figlia, perché risultato molestatore seriale. Si è sentita offesa come donna, ma nel gesto vi era contenuto anche un senso delle istituzioni. Come la moglie di Cesare, il compagno della premier non deve solo essere onesto ma apparire tale. Ma è ben più grave il ‘’dolcetto o scherzetto’’ che gli hanno combinato nel suo éntourage a Palazzo Chigi. Di solito sui collaboratori si scaricano le responsabilità dei politici, quando commettono una gaffe o rilasciano una dichiarazione che crea dei problemi. I casi da segnalare potrebbero essere tanti, ma – a mia memoria – il caso di ‘’capro espiatorio’’ più importante fu quella di Antonio Ghirelli – un grande giornalista socialista che dal luglio 1978 al maggio dell”80, svolse l’incarico di Capo ufficio stampa del Quirinale e del Presidente Sandro Pertini, il Capo dello Stato più amato dagli italiani, ma anche il più gaffeur della storia repubblicana. Ad Antonio Ghirelli capitò nel 1980 di essere licenziato in tronco durante una visita di Stato a Madrid per avere diffuso l’opinione critica di Pertini sulla vicenda esplosa a Roma di Francesco Cossiga, allora presidente del Consiglio, accusato in Parlamento, su atti trasmessi dalla magistratura piemontese, di avere rivelato da Palazzo Chigi al suo amico e collega di partito Carlo Donat–Cattin un ordine di arresto spiccato contro il figlio Marco per terrorismo.
Pertini si espose sulla opportunità delle dimissioni di Cossiga, poi salvatosi in Parlamento. A queste affermazioni replicò con durezza l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli, per placare il quale venne praticamente offerto come capro espiatorio il portavoce del Quirinale. Ghirelli in seguito ebbe altri incarichi come portavoce di Bettino Craxi, nella direzione di quotidiani anche sportivi d del Tg 2. Qualche tempo dopo fece capire come erano andate veramente le cose in un libro dal titolo ‘’Caro presidente’’ in cui raccontava la sua esperienza al Quirinale a fianco di un leader pittoresco come Pertini.
Nel caso dello scherzo telefonico del 18 settembre, diffuso nei giorni scorsi per celebrare con qualche ora di ritardo (forse dovuta alla differenza dei fusi tra Mosca e Roma?) la festa di Halloween a scapito di Meloni, le responsabilità dell’Ufficio del Consigliere diplomatico sono gravi ed evidenti. Per parlare con la premier non basta chiamare la batteria. C’è un percorso diplomatico da seguire ed è singolare che non siano stati compiuti gli accertamenti dovuti, tanto più che – a quanto si comprende – era stato organizzato un appuntamento telefonico e Meloni non era neppure in Italia. L’impostore non poteva non avvalersi di un finto canale diplomatico che organizzasse il colloquio per conto del politico africano. Possibile che a nessuno sia venuto qualche dubbio che lo inducesse a più approfondite verifiche? Poi, prestando attenzione alla registrazione, agli atteggiamenti e al tono confidenziale del lungo colloquio (dove Meloni ha dimostrato almeno di cavarsela con l’inglese meglio di Matteo Renzi), io ho avuto la sensazione che la premier fosse presa da un’ansia di prestazione, dovuta forse alla convinzione di essere considerata una player importante per il futuro dell’Africa e che quella telefonata ne fosse la prova. Salvo non chiedersi perché al proprio interlocutore interessasse di più la questione ucraina che non il Piano Mattei. La vogliamo chiamare sindrome da regina di Saba? E’ comunque singolare che nei talk show si sia parlato con maggiore accanimento del ‘’pacco’’ e del ciuffo di Giambruno e delle probabili ‘’corna’’ della sua autorevole compagna che non di delicato ufficio di Palazzo Chigi che consiglia alla presidente di acquistare la Fontana di Trevi messa in vendita da un magnate africano. Probabilmente una ragione c’è: sono stati apprezzati i dubbi di Meloni sul prosieguo della guerra in Ucraina, al punto da perdonarle anche l’incidente telefonico, grazie al quale il fronte sedicente pacifista ha un argomento in più. Poi, non mi pare chiarita una circostanza importante: l’apparato della presidenza del Consiglio si è accorta dello scherzo solo quando i comici russi hanno passato il materiale alle agenzie? Oppure se ne erano resi conto prima ed hanno taciuto? Se questo fosse vero le dimissioni di Francesco Talò sarebbero state ancor più tardive. Va dato atto a Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, di aver avuto la reazione istituzionale appropriata in siffatta circostanza. La premier non va derisa, ma difesa: dai suoi collaboratori prima di tutto e un po’ anche da se stessa.
Giuliano Cazzola