Dopo oltre 30 anni di dominio del pensiero liberista, il dibattito accademico è tornato a dubitare del trade off fra equità e crescita. Diversi successi editoriali – tra cui spiccano quelli di Stiglitz, Piketty e Atkinson – e numerose evidenze empiriche – anche a firma FMI e OCSE – hanno riportato alla luce la discussione sugli effetti delle disuguaglianze sulla crescita potenziale e sulla stessa stabilità del capitalismo. Per fortuna, anche una parte del dibattito politico inizia a considerare gli indici di disuguaglianza, soprattutto nella distribuzione del reddito, come “termometro” dell’economia.
Lo scorso 21 settembre, alla Camera le associazioni NENS e Etica ed economia – rispettivamente nella persona del Prof. Maurizio Franzini e dell’ex-Ministro Vincenzo Visco – hanno presentato un Manifesto contro la disuguaglianza, chiedendo al Presidente Romano Prodi di svolgere il ruolo di commentatore, oltre che alle diverse forze politiche e sindacali presenti. Tra le motivazioni illustrate a sostegno del Manifesto, emerge il dato sulla progressiva compressione della quota del lavoro sul PIL registrato in tutte le economie avanzate e, in particolare, in Italia: “negli ultimi 30 anni si è verificato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti e alle rendite (un tempo si sarebbe detto dal lavoro al capitale), intorno ai 15 punti di PIL; all’interno dei redditi di lavoro, lo spostamento è stato dalle classi medie, dagli operari e dagli impiegati verso i dirigenti, i manager e i professionisti; i rentiers hanno visto migliorare dovunque la loro posizione”. In tale contesto, la piena occupazione ha smesso di essere un obiettivo della politica economica e la disoccupazione è diventata un problema sempre più difficile da gestire, anche per la debolezza della dinamica degli investimenti, pubblici a causa dell’austerità e privati per i vuoti di domanda (e le conseguenti aspettative). Insomma, l’analisi alla base del Manifesto sottolinea come crisi e recessioni riversino i loro effetti negativi soprattutto sui lavoratori, sulle classi medie e sui giovani, e nella “coda” inferiore della distribuzione dei redditi la diseguaglianza si trasformi in povertà.
Ora, gli autori propongono 28 misure e riforme (dalle politiche macroeconomiche, istituzionali e industriali a quelle fiscali, del welfare e dell’istruzione, passando per le politiche retributive e di governance delle imprese) utili a contrastare l’aumento delle disuguaglianze e renderle sostenibili, cioè a riportare la “febbre” a un livello socialmente tollerabile e magari anche economicamente positivo, “come quella che hanno i bambini quando crescono” (cit. Franzini). Tra i provvedimenti che vanno sotto il titolo di “Riforma delle istituzioni economiche e interventi sul contesto”, al terzo posto, si suggerisce di “introdurre una normativa sui sindacati che ne riconosca il ruolo fondamentale, ne rafforzi la posizione e ne definisca i ruoli all’interno di regole sulla rappresentanza atte a favorire una più equa distribuzione del potere anche nella gestione delle imprese”. Più che condivisibile.
Per assumere la riduzione della disuguaglianza come obiettivo politico, a partire dall’equa distribuzione del reddito da mercato tra capitale e lavoro, occorre innanzitutto consapevolezza e volontà dei governi. Negli ultimi DEF – compresa la Nota di aggiornamento uscita il 23 settembre dal Consiglio dei Ministri – si programma un incremento della produttività maggiore dei salari e, addirittura, una flessione dei salari reali (mediamente -0,2 punti percentuali ogni anno dal 2009 e -0,6 punti da 2017 al 2020 secondo la Nota di aggiornamento del DEF 2017) che, per ragioni matematiche, in assenza di importanti incrementi dell’occupazione, comportano anche un’ulteriore compressione della quota del lavoro (mediamente un punto ogni anno nel prossimo triennio). Eppure, appare ormai chiaro – anche alla BCE – che per scongiurare la deflazione bisognerebbe aumentare i salari, finanche a tornare a parlare di inflazione programmata. Altrettanto evidente ormai anche la necessità di sostenere la domanda attraverso gli investimenti capaci di creare occupazione, anche per riqualificare l’offerta produttiva e diffondere l’innovazione. Il rafforzamento del sindacato e, in generale, dei diritti di tutti i lavoratori, di vecchia e nuova generazione, potrebbe rappresentare una precondizione per riequilibrare i rapporti di forza. Tuttavia, ammesso che ciò diventi un obiettivo di questo o il prossimo governo, in assenza di un sistema di relazioni industriali votato a una crescita diffusa, bilanciata e sostenibile, una normativa che irrobustisca il ruolo dei sindacati potrebbe non bastare, se la cosiddetta copertura contrattuale non viene garantita a tutti i lavoratori anche attraverso un modello contrattuale multilivello.
Come afferma Gaetano Sateriale, per una nuova politica salariale non basta scommettere solo sulla contrattazione aziendale che, anche con i benefici della detassazione della produttività e del welfare contrattuale, non può arrivare oltre il 30% dei lavoratori. Nella migliore delle ipotesi, resterebbero scoperti proprio tutte le imprese e i lavoratori a cui occorre più ambizioni di aumentare e redistribuire il valore aggiunto: piccole e piccolissime imprese, settori a medio-bassa intensità tecnologica e della conoscenza, comparti più esposti alla concorrenza internazionale, insediamenti del Mezzogiorno, ecc. La soluzione ha due dimensioni: orizzontale, programmando obiettivi di valore aggiunto e occupazione (implicitamente, così, anche di produttività) di settore a cui le imprese in cui si svolge contrattazione aziendale possono agganciarsi o, nel caso contrario, adeguarsi, aumentando i salari con gli obiettivi minimi di produttività; verticale, progettando linee di sviluppo locale e orientando di conseguenza gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione necessari ai traguardi di crescita territoriale.