Non vi è dubbio che una delle parole chiave di questo periodo storico è “diseguaglianza”. Per affrontare questo problema che è anche una grande sfida, Norberto Bobbio sosteneva che “occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano”. Le hanno chiamate anche “mangia futuro”, di certo le diseguaglianze le ritroviamo negli aspetti più rilevanti di questa fase della globalizzazione. Come non immaginare che il protezionismo di Trump, le divisioni in Europa, la questione energetica, i flussi immigratori, non accentuino con il “disordine” internazionale anche condizioni di diseguaglianza sul piano dei diritti, del lavoro, della qualità della vita.
Del resto il fenomeno dei sovranismi non incarna forse proteste che in passato sarebbero state in contrapposizione ed oggi invece coesistono nell’illusione che lo slogan “prima noi” risolva incertezze e squilibri?
Ed invece si rischia di accentuare gli aspetti più negativi delle diseguaglianze cavalcando la protesta fino a farla diventare essa stessa una sorta di nume tutelare di un progetto di cambiamento. E non sono rischi da poco: la erosione della coesione sociale, il ricorso all’assistenzialismo per tacitare le attese, la permanenza di una condizione di vasta precarietà nel lavoro dovuta alla negazione dello sviluppo come offerta di opportunità per tutti, un’ulteriore sfiducia nelle capacità del sistema democratico a risolvere i problemi e garantire una effettiva libertà di scelta.
Ecco perché vale la pena che il movimento sindacale assuma sempre di più la questione delle diseguaglianze come uno dei principali obiettivi del suo impegno, anche perché alla lunga questa condizione della nostra società non potrà non riflettersi negativamente anche sui corpi intermedi limitandone l’iniziativa e mettendo in discussione quel consenso nel mondo del lavoro che oggi è vasto e validato in particolare dalla contrattazione.
Ci vuole riflessione culturale, sintonia fra le confederazioni, azione risoluta ed in grado di far sentire i lavoratori protagonisti di battaglie che avvertono come proprie.
La lunga recessione ha accentuato le condizioni di povertà che oggi è arrivata a toccare cinque milioni di famiglie. I dati sull’occupazione ci dicono che calano i posti di lavoro a tempo indeterminato e che l’aumento registrato è dovuto unicamente al lavoro a termine. Mentre prosegue la “stagnazione” delle ore lavorate per addetto, il che significa che ci si divide il lavoro che c’è; ma questo andamento non può che generare ulteriori diseguaglianze. L’equità fiscale resta un miraggio e la propaganda sulla flax tax, in attesa di notizie su cosa si intende realmente fare, sembra voler accentuare le distanze di reddito e di procedere nel processo che sta frantumando quel che resta dei ceti medi.
Sul piano sociale basta citare la contraddizione rappresentata dal nostro servizio sanitario, giudicato fra i migliori al mondo in termini di efficienza media, ma che è ben lungi dal garantire prestazioni uniformi sul territorio nazionale. Così come è evidente che nel pieno della quarta rivoluzione industriale dominata dall’evoluzione tecnologica, va ripensata la scuola italiana anche come momento essenziale di formazione ad una vita civile e di lavoro che sta mutando profondamente. Istruzione e formazione hanno bisogno di “fondamentali” forti ma non distribuiti a pelle di leopardo con ristretti poli di eccellenza educativa ed altre proposte formative non in grado di reggere ai cambiamenti in atto.
E sul piano territoriale non si può non osservare come lo sforzo per avvicinare le aree del nostro Mezzogiorno ai ritmi di crescita del centro nord e dell’Europa è stato del tutto insufficiente, tanto che le rotte che portano verso i luoghi economici in grado di offrire qualche vera ai giovani sono soprattutto quelle dell’emigrazione all’estero.
Viene facile l’osservazione che dopo le sbornie liberiste ci vuole una ridefinizione del ruolo dello Stato che sia nuovamente il perno di una stagione di sviluppo che per essere sostenuto ha bisogno di investimenti, di interventi riformatori concreti, di sostegno alla vocazione manifatturiera del Paese che finora sta mantenendo a galla la nostra economia sul piano fiscale (finalizzato al lavoro), su quello della semplificazione burocratica, su quello dell’innovazione.
Il movimento sindacale ha buone ragioni per incalzare la politica ed il nuovo Governo su questo terreno.
Così come la sua iniziativa può indurre a limitare e ridurre talune situazioni di diseguaglianza. Nel dibattito politico attuale è presente con evidenza il tema del salario minimo. Fuor da suggestioni ideologiche, sbagliate, va detto che quando il Movimento cinque Stelle parla di salario minimo orario in realtà non può riferirsi solo ai casi di lavoratori non coperti da contratti nazionali, perché proprio il termine “orario” è tipico di essi. In tal caso si tratterebbe di una invasione di campo che potrebbe generare ancora più confusione e certamente spingerebbe anche più verso il basso le dinamiche retributive e, forse, sarebbe un viatico per pratiche di lavoro “grigio”. Viceversa c’è un assai più spinoso problema da affrontare e risolvere ed è quello costituito dalla compresenza nei luoghi di lavoro di diversi contratti che spesso determinano diseguaglianze di trattamento non giustificabili. Lo sforzo prioritario che va compiuto allora è quello di sostenere l’impegno sindacale a riunificare e non consentire di frammentare ancor di più le posizioni lavorative nei luoghi di lavoro.
Riunificare il mondo del lavoro dipendente è un contributo importante anche alla coesione sociale. Può aiutare in questa direzione la contrattazione che, al di là delle soluzioni specifiche, può esercitare un ruolo positivo in questa direzione anche là dove si deve innovare come ad esempio sulle questioni del welfare.
Ma un protagonismo del movimento sindacale sulla grande problematica delle diseguaglianze può avere un effetto importante anche su un piano più generale. In questi ultimi tempi si esalta il rapporto diretto con il popolo, come espressione maestra di cambiamento e democrazia. In realtà questa deriva può finire di disarticolare ancora di più la nostra società, non solo perché alimenta l’individualismo, ma anche perché esclude quel momento indispensabile che è il dialogo, la discussione, il confronto fra opinioni necessario per ricercare le risposte migliori. Ed uno dei vuoti politici e sociali da colmare è proprio quello della assenza di luoghi e sedi di confronto. Il sindacato vive di partecipazione e questa sua caratteristica ha avuto un grande valore sia nel progresso economico che democratico. Il valore della partecipazione va sviluppato certamente in economia e nelle trasformazioni che subirà ancora il lavoro, ma ha anche una valenza più complessiva che non va dispersa. Ed anch’essa va incontro alla esigenza di ridurre le diseguaglianze perché coinvolge, non emargina, incoraggia a mettere insieme le speranze e le forze.