Adolfo Urso, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, la primavera scorsa sostenne che in Italia ci sarebbe spazio per due, forse anche tre grandi aziende produttrici di auto. Affermazione forte, virile, come ci si aspetta da un governo di destra. Peccato che a quelle parole non siano seguiti i fatti. Il nostro paese ormai non ha più nessuna azienda che produca automobili, nonostante una volta ce ne fossero parecchie. Ma erano per lo più piccole o piccolissime e non ressero alla concorrenza di un mercato aggressivo. Soprattutto la Fiat, grande azienda italiana, asse portante della nostra industria, che si strutturò proprio sulle sue esigenze, spazzò via ogni concorrenza. Solo che a un certo momento gli eredi degli Agnelli pensarono bene di disfarsi del loro gioiello. La Fiat, che per sopravvivere si era gemellata con la Chrysler ed era diventata la Fca, riuscendo a mantenere la testa del gruppo in Italia, fu ceduta alla Peugeot, grande azienda francese, con una forte partecipazione del governo di Parigi. Praticamente uscì di scena. John Elkann ha mantenuto la presidenza del gruppo, ma nei fatti non conta o non gli interessa contare.
A perderci è stata l’Italia. Che pure nella componentistica auto aveva una presenza di grande levatura, con importantissimi players. Uno per tutti, la Brembo di Alberto Bombassei, che produce per il mercato mondiale sistemi frenanti per auto. I suoi prodotti sono così perfetti che nessuna casa automobilistica si può permettere di farne a meno. E lo stesso può dirsi per la Marelli, ora al centro dell’interesse perché già venduta, o svenduta, a un grande gruppo finanziario americano, che ha pensato bene di chiuderla e trasferire la produzione in un altro paese europeo, licenziando i 330 lavoratori di Crevalcore. Era considerata unanimemente indispensabile, un gioiello, improvvisamente si è ritenuto che non lo fosse più. Solo la rabbia degli operai licenziati è riuscita ad ottenere un ripensamento di quel gruppo finanziario americano: la chiusura è stata sospesa, non annullata. A far cambiare idea è stata la pressione della pubblica opinione e la speranza di trovare un acquirente, non certo un cambiamento della politica industriale del gruppo.
Questo progressivo deterioramento della salute dell’industria italiana dell’auto, lo spiega con grande chiarezza Paolo Pirani nell’intervista rilasciata a Nunzia Penelope per Il diario del lavoro, è dovuto all’assenza di un qualsiasi modello di politica industriale. Urso, che avrebbe il compito di elaborare, strutturare questa politica industriale e poi realizzarla, si guarda bene dall’affrontare i problemi, se non nell’ambito, protetto, di qualche convegno o congresso. Recentemente ha assicurato che presto stilerà un accordo con Stellantis, l’azienda che si è portata via la Fiat, per produrre un milione di auto l’anno in Italia. Parole che potrebbero rincuorare se non fossero senza alcun fondamento. Adesso in Italia si producono 400mila vetture e tantissimi operai, davvero troppi, aspettano in cassa integrazione tempi migliori. Per arrivare a quel milione di auto servirebbe una serie di decisioni importanti, capaci di coinvolgere il governo e tutto il sistema della produzione nel nostro paese.
Servirebbe, appunto, una politica industriale. Anche perché non è stato eliminato l’impegno verso l’auto elettrica. Nel 2035, domani in pratica considerando i tempi lunghi dell’industria automobilistica, cesserà la produzione di motori endotermici, quelli sui quali si basa tutta, o quasi, la produzione di auto in Italia. L’avvicinamento all’auto elettrica doveva essere preparato, si dovevano programmare le diverse fasi, amministrative e poi produttive, che avrebbero dovuto accompagnarci a questa scadenza. E, invece, nulla di tutto ciò, il vuoto più assoluto. I ministri dell’industria o delle attività produttive, come si è chiamato via via il loro dicastero, al più hanno convocato un tavolo di discussione del problema, ma una tantum, quasi una tavola rotonda per lavarsi la coscienza, nulla di più. I sindacati metalmeccanici hanno chiesto a gran voce, da tantissimo tempo, un’assunzione di responsabilità, un piano generale, la costruzione di un progetto per affrontare queste scadenze che si avvicinano, senza ottenere alcun risultato. Nei prossimi giorni ci sarà un nuovo sciopero per sollecitare una qualche decisione politica, ma è difficile che possa giungere una reale risposta. Altri paesi europei, come noi impegnati nella transizione green, hanno messo a punto una politica industriale nazionale. Francia e Germania, i più forti, si sono mossi per tempo e possono adesso giovarsi di un anticipo, da noi il nulla. Forse aver cambiato nome al ministero, che adesso pomposamente si chiama delle Imprese e del made in Italy, non è stato sufficiente. Come non è bastato aver illuminato la sede del dicastero a Roma, nelle magiche notti di via Veneto, con grandi fasci di luce con i colori della bandiera. Il tricolore si onora lavorando per il paese, non limitandosi ad accendere un riflettore.
Massimo Mascini