Giuseppe Di Vittorio morì il 3 novembre 1957. Aveva 65 anni. La ricorrenza della sua scomparsa, domenica scorsa, è stata una flebile e impercettibile parentesi tra le feste di Ognissanti, dei Defunti e delle Forze Armate. Poche le occasioni per onorare e rinnovare la memoria del cafone che divenne un mito. La fondazione che porta il suo nome lo ha commemorato, ribadendone l’attualità del pensiero, con le parole che scrisse sull’Unità il 31 luglio 1946: “Il lavoro salverà l’Italia”.
Aboubakar Soumahoro, il raccoglitore di pomodori diventato un simbolo della lotta contro lo sfruttamento degli immigrati dopo l’uccisione a fucilate di un suo compagno di sventura, ha reso omaggio all’uomo di Cerignola, che fu anch’egli un bracciante-schiavo, sostenendo che nell’era digitale bisogna avere come bussola la sua lezione. Perché, ha scritto sull’Espresso, “il grande sindacalista sapeva tenere assieme l’analisi dei processi produttivi e la capacità di essere umanamente vicino agli sfruttati”. Bisognerebbe aggiungere che usava spesso l’espressione “popolo”, un concetto che i progressisti benpensanti e ben pasciuti non sanno nemmeno cosa sia e che è diventato un monopolio della nuova destra.
E c’è anche un Di Vittorio deputato e consigliere comunale a Roma. A quest’ultima esperienza, Ilaria Romeo e Giuseppe Sircana qualche anno fa dedicarono il libro “Una questione capitale”, edito da Ediesse, prefazione di Walter Veltroni, che nell’attuale temperie politica vale la pena rileggere. Non tutti sanno che nel 1952 il segretario della Cgil fu candidato, ed eletto con enorme successo, in una lista civica guidata da quella nobile figura di liberale che fu Francesco Saverio Nitti. Un’iniziativa determinante nell’arginare l’offensiva clerico-fascista che aveva visto in campo don Sturzo nel tentativo, appoggiato dal Vaticano, di cementare un’alleanza tra la Dc e la destra monarchica e nostalgica.
Di Vittorio entrò in Campidoglio e, pur oberato dagli impegni nazionali, svolse il suo compito con la diligenza e la serietà che lo caratterizzavano. Nel 1956 fu ricandidato, da uno sgarbato e ingrato Togliatti che gli inflisse l’umiliazione di non essere capolista. Obbedì, con rammarico. I contrasti con il Migliore, in specie dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, erano forti. Morì l’anno dopo, minato anche dalla tristezza degli eventi.
Ma quel che qui conta ricordare è il suo impegno a difesa della democrazia nella convinzione che i diritti dei lavoratori vanno di pari passo con l’iniziativa politica, che non è partitica, ma attiene ad un’imprescindibile visione d’assieme. Fu un precursore dell’autonomia sindacale, anche da qui i contrasti con il segretario del Pci (ottavo congresso, dicembre 1956). Una lunga battaglia che ha portato all’attuale separazione, con la scelta dell’incompatibilità tra dirigenza sindacale e incarichi parlamentari. Verrebbe da chiedersi se ora non siamo all’estremo opposto, ad una pilatesca ignavia ideologica che porta gli attuali dirigenti della Cgil ad accettare come inevitabile il plauso che riceve Matteo Salvini anche tra i loro iscritti.
Poi c’è un’altra domanda. Nel ’52, in piena guerra fredda, fu possibile mettere in piedi, per tempo e con successo, una lista civica composta da personalità indipendenti, di prestigio, capaci di ottenere consenso. Archiviato il fallimentare esperimento dell’Umbria e senza aspettare l’ultimo momento per trovare un candidato credibile, se non si vuole consegnare Roma ad un sindaco della Lega, forse una mobilitazione come quella che portò Di Vittorio ad ottenere 70 mila preferenze, può essere presa in considerazione. Maurizio Landini, se ci sei, batti un colpo.
Marco Cianca