Dopo anni di battaglie e al termine di una trattativa non priva di ostacoli, lo scorso 20 dicembre Anica, Apa e Ape e le Organizzazioni Sindacali Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil, hanno sottoscritto il primo contratto collettivo nazionale di lavoro delle attrici e degli attori del settore cine-audiovisivo, che il 2 gennaio 2024 l’assemblea dei lavoratori ha approvato favorevolmente con 761 voti. Un traguardo fondamentale nel solco della partecipazione e della democrazia, che apre una nuova stagione di relazioni industriali nel settore cine-audiovisivo e che vede all’orizzonte nuove sfide per rafforzare al competizione internazionale delle industrie italiane dell’intrattenimento. Ne parla in questa intervista la segretaria nazionale della Slc-Cgil, Sabina Di Marco.
Segretaria Di Marco, lei stessa ha definito questo contratto “un risultato storico”.
Lo definisco un risultato storico perché non c’è mai stato un contratto collettivo nazionale degli attori. È stata una delle battaglie più importanti del settore, a partire da Gian Maria Volonté, ma anche tutti i segretari che si sono succeduti e i rappresentanti del SAI (Sindacato Attori Italiani) hanno provato a raggiungere questo obiettivo. Mentre c’era un contratto per gli scritturati nel settore dello spettacolo dal vivo, in Italia nel cine-audiovisivo non c’è mai stato, cosa che invece esiste nel resto d’Europa. Fino a oggi il settore è stato attraversato da associazioni e gruppi di rappresentanza che non hanno avuto forza sufficiente di raggrupparsi e di riuscire a fare pressioni sul sistema produttivo, per cui questo è stato un risultato importante anche dal punto di vista della capacità di rappresentanza del sindacato con un metodo fortemente innovativo.
Quali sono i contenuti salienti dell’accordo?
Innanzitutto abbiamo sottoscritto un contratto nel quale si sancisce che la prestazione attoriale si regola con un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato – in un settore nel quale quasi tutti utilizzano la Partita Iva – e si afferma che tutte le condizioni, le medesime modalità organizzative e tutele vengono applicate anche nel caso in cui si abbia un contratto di lavoro autonomo. Quindi c’è questo doppio binario che sancisce il fatto che il lavoratore, sia subordinato o autonomo, ha la garanzia di avere tutta una serie di diritti che vengono poi declinati. Un primo punto fondamentale, quello della capacità di rappresentanza del lavoro autonomo, che come Cgil stiamo provando a esprimere all’interno dei contratti collettivi nazionali di lavoro. La filiera del cine-audiovisivo è molto particolare, dove il lavoro è sostanzialmente un frammentato, e per questo stiamo provando a immaginare un sistema di rappresentanza sindacale che dia protagonismo a questi lavoratori. Oltre a ciò, abbiamo attivato un percorso che vada a definire e tutelare un sistema di welfare, altro elemento fondamentale per chi lavora in forma discontinua. Abbiamo provato a ragionare a 360 gradi rispetto ai diritti, provando a dare quelli che già ci sono nei contratti collettivi tradizionali facendolo con un piglio innovativo e adeguato a un mondo che invece ha una sua particolarità specifica. Per la prima volta, poi, è stata definita la figura professionale dell’attore, cioè quando si passa dall’essere un generico e si diventa attore, delineandone le caratteristiche. Dal punto di vista economico abbiamo definito dei minimi di compenso e l’abbiamo fatto provando ad articolare il sistema della produzione e del mercato del lavoro del cine-audiovisivo, distinguendo tra cinema, lunga serialità e lunghissima serialità, nell’ottica di compensi che sono sempre legati alla continuità di lavoro, ispirandoci al contratto spagnolo. Inoltre, abbiamo stabilito dei minimi inferiori rispetto a quelli del cinema industriale per garantire la possibilità ai registi esordienti di fare opere prime e seconde, cortometraggi, documentari, docu-fiction e prodotti di ricerca e formazione. C’è poi l’istituto della disponibilità retribuito, per cui un attore ingaggiato per un lungo periodo deve mantenere un certo aspetto e se tutto questo prima era dato per scontato, oggi questo ha un costo. Abbiamo poi introdotto alcuni diritti importanti, come per esempio i rimborsi per le audizioni quando si fanno i call back e il riposo di almeno 11 ore continuative, come previsto dalla legge. Abbiamo poi toccato i temi dell’intelligenza artificiale: c’è una legislazione europea in corso, che tuttavia si preoccupa più dell’utente finale che del lavoratore. Noi attiviamo un osservatorio per capire le nuove norme che ci saranno sia a livello europeo che a livello nazionale, ma nelle more della regolazione sanciamo il divieto di utilizzo, senza accordi espliciti, della voce e del corpo, come di parte di essi, per farne un uso legato all’intelligenza artificiale e al machine learning. Un tema importante riguarda anche le pari opportunità di genere relativamente all’equo compenso, alla retribuzione paritaria tra i generi e all’accesso, anche per le componenti LGBTQ+; diamo valore all’intimacy coordinator contro la violenza di genere, per cui abbiamo già avuto anni fa un protocollo contro le molestie che è rimasto largamente inattuato in un settore in cui è difficile delimitare il margine tra la molestia e la non molestia quando si utilizza il corpo. L’intimacy coordinator, infatti, ha la funzione di tutelare i soggetti nelle scene più intime quando ci si sente vittima di una qualche forma di molestia. Abbiamo poi istituito un osservatorio per monitorare l’efficacia di questo contratto, affinché si individuino eventuali aspetti da migliorare nella prossima tornata contrattuale del 2027 e verificare la correttezza sostanziale delle imprese di produzione nell’applicarlo.
Qual è la vostra posizione sull’indennità di discontinuità così formulata dal Ministero dei Beni Culturali?
Nel contratto si prevede che nei momenti in cui l’attore non lavora, venga erogata una contribuzione figurativa. Questo è un elemento importante perché abbiamo bisogno di un’altra gamba, di carattere legislativo, che è l’indennità di discontinuità, che consenta ai lavoratori e alle lavoratrici di questo settore di avere una garanzia di sopravvivenza e per questo abbiamo bisogno di una contribuzione che permetta di avere accesso alle indennità di discontinuità, che così come è stata pensata da questo Governo per noi non è adeguata. La nostra proposta è stata costruita in maniera molto puntuale, affinché possa diventare uno strumento che si autosostiene e che non abbia bisogno di intervento pubblico annuale attraverso le leggi di bilancio, ma che veda l’emersione del nero e che consenta di avere una contribuzione concreta ed effettiva per poter accedere allo strumento e veder tornare indietro quello che di fatto si versa nel Fondo Lavoratori Spettacolo.
Perché tra gli attori è mancata la coesione di cui lei parlava prima per alzare la voce?
Da questo punto di vista credo ci sia un dato strutturale che vede la necessità da parte di questo mondo del lavoro di avere delle quote di individualismo un po’ superiore rispetto ad altri lavori. Penso che ci sia stato un passaggio epocale che è coinciso con la pandemia, in cui gli attori si sono accorti di non avere diritti né tutele e per questo hanno cominciato ad associarsi in modo più strutturale. C’è da dire che neanche il sindacato è stato sufficientemente adeguato a dare delle risposte, perché comunque è un mondo che ha una sua atipicità – tra lavoro autonomo, saltuario e una forte identificazione con la propria maestranza che ha portato a uno sviluppo più delle singole professioni che non a una visione complessiva di carattere confederale. La pandemia ha modificato tutto ciò e anche il sindacato ha cambiato le sue pratiche. Nel percorso di costruzione della piattaforma c’è stato un lavoro fortemente partecipato nel quale siamo stati inclusivi, siamo partiti da riunioni generaliste con richieste che non avevano le caratteristiche del Ccnl, ma piano piano, con competenza, abbiamo provato a farle rientrare in un sistema di regole. Questo è il grande successo: il fatto di essere stati capaci di dare una risposta a un bisogno che è emerso in maniera deflagrante e aver visto gli attori ascoltare e capire che il sindacato poteva fare qualcosa, che era un mondo che andava conosciuto e regolato. Il salto di qualità, frutto di due eventi combinati, è stato la presa di consapevolezza da parte degli attori che essi stessi sono lavoratori e che il sindacato ha provato a dare delle risposte in maniera nuova.
Un contratto per cui già Gian Maria Volontè si è battuto. Perché così tanto tempo per ottenerlo?
È un percorso accidentato, in cui facilmente scattano antagonismi, mentre l’idea della solidarietà è quella vincente.
Un atteggiamento che alimenta il pregiudizio dell’attore come lavoratore privilegiato?
Sì, quando invece nella realtà non è così. Nella nostra delegazione c’erano tanti attori e attrici, noti e meno noti, che abbiamo provato a mettere insieme nel sistema per avere tutte le tipologie di lavoratori. Per questo anche la definizione dell’attore è stato un lavoro molto complesso, identitario, e finalmente si sono riconosciuti come una categoria complessiva. Spero che questa cosa tenga, cioè che dopo il contratto si continui ad andare avanti così.
Qual è stato, invece, l’atteggiamento dei produttori durante la trattativa?
Per i produttori l’idea di regolare l’attore in un contratto collettivo nazionale era qualcosa di lontanissimo, quindi è stato un lavoro molto impegnativo. Noi abbiamo dovuto dimostrare una rappresentanza vera, che andasse dal grande attore a quello emergente, e abbiamo provato a far capire ai produttori che in realtà regolarli era una cosa normale. Abbiamo incontrato molte resistenze, motivo per cui la trattativa è durata due anni, ma abbiamo provato a dare delle risposte a un settore produttivo che vive fortemente di finanziamenti pubblici. Non ci sono più i produttori che mettono i soldi di tasca propria, per cui da un lato ci sono alcune agevolazioni pubbliche come il tax credit, dall’altra parte lavorano anche come produttori esecutivi con le grandi ODT come Netflix, Sky, Disney. Per alcuni aspetti sono sovrastati da un sistema di produzione internazionale sempre più potente che viene a produrre in Italia e quindi sottrae potere contrattuale, provando a imporre delle regole e in alcuni casi anche i contratti agli attori e non solo. La sfida era quella di tirare fuori anche una dignità di settore. Con questo contratto collettivo nazionale abbiamo creato un punto fermo e contemporaneamente un punto di forza per i produttori, perché vale con le ODT e anche rispetto al sistema di finanziamenti pubblici, così come rispetto alla Rai, a Mediaset, quindi a chi finanzia produzioni per la serialità televisiva. Di volta in volta utilizzano come contratto di riferimento un Ccnl per le troupe che risale al 1999, per il quale siamo in fase di rinnovo, con dei minimi salariali che sono totalmente inapplicati. E poi mancava la parte della produzione artistica degli attori, per cui si trattava di una contrattazione tutta individuale non avendo gli elementi per poter determinare concretamente qual è il costo. Per questo il contratto appena sottoscritto dà anche ai produttori la grande forza di poter riconquistare una dignità nel mercato.
È questo quello che intende quando parla di dare più competizione internazionale al settore?
Sì, quando si riconquista la dignità partendo dal lavoro, attraverso delle regole stabilite nel proprio Paese che rendono i soggetti più competitivi a livello internazionale, più proattivi. Non si subisce più quello che accade, ma si diventa un agente all’interno di un mercato internazionale, con proprie regole attraverso le quali discutere alla pari con gli altri soggetti sul mercato. Altrimenti, il rischio è diventare semplicemente destinatario di alcune produzioni estere che decidono le regole del gioco.
Sembra in atto un nuovo corso nell’audiovisivo. Quali i prossimi passaggi?
Il prossimo passaggio è il contratto collettivo nazionale di lavoro delle troupe e siamo in una fase abbastanza avanzata. Si tratta di un contratto portante, perché definire le troupe significa regolare il funzionamento del lavoro su un set cinematografico. La prima cosa che noi chiediamo sarà la certificazione oraria, perché sono settori nei quali non si sa quanto lavori, o meglio, non è certificato quanto lavori, perché spesso si supera la soglia delle classiche otto ore. Stiamo provando ad adeguare i salari, non consentendo più una contrattazione libera di carattere individuale, che comunque dovrà esserci, ma con dei minimi contrattuali attendibili rispetto ai tempi; bisogna riformare le graduatorie professionali, perché le professioni sono cambiate tantissimo negli anni e avendo un contratto così vecchio c’è una discrezionalità che va aggiornata anche rispetto alle innovazioni tecnologiche che si sono succedute. Inoltre, siamo vicini alla chiusura del contratto per gli stuntman. Ma anche se stiamo lavorando sui singoli segmenti, l’obiettivo è fare un contratto di filiera del settore audiovisivo.
In che cosa consiste il contratto di filiera?
È un contratto che ti consente di mettere insieme tutti i pezzi su cui si interviene per dare una regolazione che sia armonizzata per tutti rispetto ai diritti, ai tempi di lavoro, la valorizzazione delle professioni. Un sistema che riduca anche il numero dei contratti, una delle grandi piaghe del lavoro in Italia. Il contratto di filiera, quindi, diventa un contratto unico del cine-audiovisivo, dando identità a quel settore attraverso dei diritti e delle tutele che sono armonizzate e che valgono per tutti, ovviamente con delle specificità interne. L’obiettivo è un sistema contrattuale più moderno e meno frammentato, che lascia meno spazio all’arbitrio.
Cosa ha significato questa sottoscrizione per il sindacato?
Per il sindacato ha rappresentato innanzitutto mettere insieme dei diritti minimi per tutti i lavoratori del settore, soprattutto i più fragili come i giovani che si affacciano a questo lavoro e i tanti che lo praticano da anni e che si trovano costretti a contrattare senza avere diritti, utilizzati poi da alcune produzioni in una forma un po’ usa-e-getta. Quindi abbiamo voluto innanzitutto dare dignità a quei lavoratori. Il contratto è stato poi un banco di prova molto importante dal punto di vista della sperimentazione contrattuale, ad esempio sul doppio binario del lavoro autonomo e del lavoro dipendente, così come dei modelli di organizzazione in un settore assolutamente atipico. Il terzo aspetto è legato alla rappresentanza, cioè provare a fare entrare un mondo fortemente frammentato dentro a un sistema più generale di tipo confederale. È importante avere una capacità di rappresentanza e dialogo che abbia una visione più alta del proprio particolare, che incarni una maggiore coscienza e consapevolezza nel grande potenziale in termini di potere contrattuale. Ci siamo dovuti mettere in gioco anche con alcune modalità consolidate con cui si fanno i contratti, per cui l’accordo sottoscritto potrebbe anche essere un modello di ispirazione per molti altri settori. Dal punto di vista sindacale abbiamo riaperto un corso di relazioni industriali, perché quando non si sottoscrivono contratti per venti anni significa che non si sa parlar,. Oggi, però, abbiamo rimesso in moto un dialogo. Dobbiamo rafforzare gli strumenti e le commissioni che abbiamo sul campo nel segno di una consapevolezza condivisa rispetto al futuro cui andiamo incontro. Quanto alla rappresentanza sindacale, ognuno deve sapere che ha un ruolo, una funzione e deve giocare in modo dialettico e i lavoratori di questo settore devono sentirsi rappresentati in maniera piena e puntuale dal sindacato, perché alla fine il sindacato sono loro. C’è bisogno di un’idea di partecipazione costante, la visione di un percorso democratico all’interno del sindacato che ti faccia sentire protagonista, un percorso democratico con la capacità di rappresentanza dentro una dinamica di carattere confederale.
Elettra Raffaela Melucci