L’intesa tra governo e regioni dello scorso 23 febbraio, in attuazione della legge di bilancio, riduce di 485 milioni i trasferimenti complessivi alle regioni dei fondi destinati al fondo per le politiche sociali e per la non autosufficenza. Il ministero del Lavoro ha confermato che la riduzione si avrà in ordine di esigenze di bilancio. In particolare, “per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica”, il fondo nazionale per le politiche sociali passa da 313 a 99 milioni, portandolo vicino al minimo storico, mentre il fondo per le non autosufficienze verrà ridotto a 450milioni, perdendo i 50milioni aggiuntivi assegnati lo scorso novembre. A risentire del taglio sono le fasce deboli della popolazione: disabili, anziani non autosufficienti, bambini poveri, ma anche le risorse per l’edilizia scolastica e sanitaria. Il diario del lavoro ha intervistato il segretario confederale della Cgil, Rosanna Dettori, per avere un quadro globale sulle conseguenze e i rischi derivanti da questi tagli.
Come si è arrivato a definire un taglio così importante per i due fondi sociali?
E’ una lunga consuetudine, socialmente insostenibile e intollerabile che ogni qualvolta si interviene sulla riduzione delle spese, le già scarse risorse per il welfare debbano pagare il loro tributo. In questa occasione al danno si aggiunge la beffa: proprio la legge di stabilità 2017 aveva aumentato la dotazione dei fondi per il sociale , in particolare del fondo per la non autosufficienza, finanziato con 450 milioni poi aumentati ulteriormente, arrivando a 500 milioni. Risultato, dopo poche settimane il fondo per la non autosufficienza perde 50 milioni e torna a 450 milioni, quello per le politiche sociali perde oltre 211 milioni: da 300 ne restano solo 99. La “volatilità” delle risorse destinate al sociale sono un efficace indicatore della marginalità in cui la politica colloca i servizi e le prestazioni sociali che dovrebbero essere, invece, il centro di efficaci politiche redistributive per realizzare giustizia ed equità sociale, integrazione ed inclusione.
Quali sono le conseguenze?
Gli ultimi dati pubblicati dall’Istat e riferiti al 2015, rilevano un milione e 582mila famiglie in povertà assoluta, vale a dire più di 4,5 milioni di individui: povertà assoluta, cioè impossibilità di accedere al minimo indispensabile per garantire una vita dignitosa. Dal 2007, al 2015, la percentuale di persone povere è più che raddoppiata, passando dal 3,1 per cento al 7,6 per cento ed è un fenomeno che riguarda l’intero territorio nazionale. Il quadro viene ulteriormente aggravato dai dati forniti dalla Svimez (l’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno), che parlano di 576mila posti di lavoro persi dal 2008 nel meridione: il 70 per cento delle perdite di tutta Italia, mentre i livelli occupazionali risultano i più bassi registrati dal 1977. E’ importante ricordare anche le condizioni, sempre più diffuse, di chi pur potendo contare su un lavoro vive in condizioni di povertà: i cosiddetti working poor, lavoratori sotto occupati o a bassa remunerazione. Inoltre c’è un preoccupante dato generazionale da sottolineare, degli oltre 4,5 milioni di poveri totali, infatti, il 46,6 per cento risulta sotto i 34 anni; in termini assoluti si tratta di 2,1 milioni di individui, e tra loro i minori sono 1,1 milioni. “ I tagli colpiscono proprio queste persone, con una ulteriore diminuzione di servizi e misure di sostegno al reddito, creando una perversa spirale di aumento dell’ impoverimento e dell’ esclusione sociale, e, per quanto riguarda in particolare i giovani e i minori, negando la possibilità di costruirsi un futuro, con conseguenze negative che si rifletteranno su intere generazioni.
Prima di questi tagli, che portano i fondi al minimo storico, le risorse stanziate erano sufficienti?
No, le risorse non erano sufficienti neanche prima dei tagli, e questo rende ancora più ingiusti gli interventi di riduzione. Sul versante lotta alla povertà, c’è stata proprio nei giorni scorsi una positiva inversione di tendenza con l’approvazione definitiva da parte del l Senato, il 9 marzo 2017, del disegno di legge, collegato alla legge di stabilità 2016, che delega il Governo ad emanare norme relative al contrasto della povertà e al riordino delle prestazioni assistenziali. Le risorse economiche da utilizzare sono quelle previste dal “Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale”, pari a 1.030 milioni di euro già stanziati per il 2017 e a 1.054 milioni l’anno a decorrere dal 2018, così come stabilito dalla legge di stabilità 2016. Riguarderà circa 400.000 nuclei familiari, quindi molto meno di quelli che ne avrebbero bisogno, ma possiamo considerarlo un utile punto di partenza.La questione è che la spesa sociale è un investimento che aiuta lo sviluppo complessivo, invece viene trattata come un lusso di cui si può fare a meno, con la conseguenza che sono proprio le persone che maggiormente avrebbero bisogno ad essere colpite. Diritti, solidarietà, giustizia diventano parole vuote.
Quale sarebbe la quota ideale per far fonte ai bisogni collettivi?
Non è possibile definire a priori e in astratto la quantità di risorse necessarie per il welfare. E’ necessario individuare gli obiettivi, la qualità e quantità di servizi. Si debbono definire i livelli essenziali delle prestazioni sociali come condizione per la costruzione di un effettivo sistema di protezione sociale sull’intero territorio nazionale. La definizione dei LEPS è prevista dal Piano Nazionale Infanzia per minori e adolescenti, è un obiettivo in discussione al tavolo per la non autosufficienza.
Ci sono aree del Paese che ne risentiranno maggiormente?
Certo le aree con livelli maggiori di deprivazione economica, sociale e relazionale sono le più colpite, in quanto alla riduzione dei trasferimenti nazionali, si sommano le minori capacità di risposta autonoma delle istituzioni locali.
Il trasferimento dei fondi verrà ridotto per esigenze di bilancio. Secondo lei quale sarebbe il percorso ottimale per evitare che queste scelte ricadano sulle fasce fragili della popolazione?
Penso che bisognerebbe fare una seria riflessione sul sistema di tassazione, non per dire genericamente che bisogna ridurre le tasse (la conseguente riduzione dei servizi colpisce, come abbiamo visto, i soggetti più fragili e riduce il grado di solidarietà del sistema), ma per rendere più equo il prelievo. Oggi, di fatto, l’unica imposta progressiva è l’Irpef, pagata soprattutto dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, molte misure fiscali sono oggi regressive, basti pensare, da ultimo, alle agevolazioni fiscali per il welfare aziendale. Ormai sembra una inutile cantilena parlare di lotta all’evasione fiscale, ma essa in quanto tale realizza enormi ingiustizie, anche per quanto riguarda l’accesso a prestazioni agevolate: gli evasori non concorrono al finanziamento ma partecipano ai benefici e, spesso ne sono esclusi i contribuenti onesti. La recente approvazione della flat tax che offre ai super ricchi residenti all’estero la possibilità di trovare una conveniente accoglienza fiscale in Italia pagando 100.000 euro all’anno, tutto compreso, oltre ad essere vergognosa è ‘ una norma in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Fino a poco tempo fa si chiedevano regole fiscali comuni, in Europa, per combattere la concorrenza sleale e i paradisi fiscali…e adesso?
Ci sono responsabilità da attribuire alle Regioni?
Le Regioni hanno condiviso i tagli al welfare e il Patto di stabilità, quindi hanno una corresponsabilità. Auspichiamo comunque che mettano in campo politiche di potenziamento dei servizi pubblici, dalle politiche attive del lavoro alle politiche per l’infanzia, alla non autosufficienza, alla disabilità, alle politiche per l’invecchiamento attivo, con certezza di esigibilità di questi servizi da parte dei cittadini.
Quali sono le priorità da portare avanti?
La priorità è dare attuazione a un modello di sviluppo che coniughi progresso sociale e crescita economica. E’ necessario creare lavoro ma non “qualsiasi lavoro”, serve lavoro a cui siano riconosciuti diritti e la giusta retribuzione e contemporaneamente un sistema di interventi sociali che favoriscano e sostengano l’ingresso dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro, la conciliazione tempi di vita e di lavoro, realizzi inclusione sociale ed emancipazione dalle condizioni di bisogno
Come si colloca il sindacato?
Il sindacato è impegnato da sempre su questo duplice fronte. La Cgil ha presentato un piano del lavoro che è basato esattamente sul binomio inscindibile tra crescita economica e sociale. I referendum sui voucher e sugli appalti, vanno nella direzione di restituire diritti e dignità al lavoro. Nel territorio svolgiamo una capillare attività negoziale sui temi sociali, sanitari, della tassazione locale, dell’organizzazione delle città e dei loro servizi.
Prevedete mobilitazioni o altre azioni?
Sono previste svariate iniziative di coinvolgimento e mobilitazione dei lavoratori e dei cittadini sui temi del socio sanitario con l’obiettivo di investire e potenziare i servizi alle persone. In particolare attraverso le nostre attività negoziali. Inoltre è prevista una prima manifestazione l’8 aprile, a sostegno dei referendum, della Carta dei diritti universali del lavoro (nostro vero obiettivo), e per i diritti di cittadinanza, scritti tra l’altro nella nostra Carta Costituzionale.
Quale strategia proponete per fronteggiare l’aumento delle fragilità sociali?
Invertire la tendenza in atto di aumento delle povertà e delle disuguaglianze significa ridare dignità al lavoro, a partire da retribuzioni che consentano una vita degna, rafforzare ed estendere la capacita di intervento del welfare e la sua efficacia. Queste sono condizioni di base per una società più giusta e solidale, basata sui diritti delle persone.
Elettra Raffaela Melucci