Dal 2016 l’EPEA (European Prison Education Association) promuove ogni 13 ottobre la Giornata Internazionale dell’Educazione in Carcere. Contestualmente a questo evento, lo scorso 10 ottobre l’Inapp ha dedicato un seminario alla presentazione del paper “Detenzione e diritti umani. Una disamina della situazione carceraria in Italia”, a cura della ricercatrice Tiziana Iorio, che analizza nei suoi aspetti principali il fenomeno della detenzione carceraria attraverso un excursus sullo sviluppo della legislazione e della sua evoluzione, le condizioni della popolazione detentiva (tra cui il tema del sovraffollamento, la salute dei detenuti, la dimensione affettiva e il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre) e un focus particolare su istruzione e formazione lavorativa per i percorsi di reinserimento sociale.
Il paper incrocia dati statistici con una vasta bibliografia, restituendo un quadro efficace e puntuale su un mondo avvolto dalla misconoscenza, quando invece andrebbe assunto e interpretato come fatto di pubblico interesse, «una questione socio-antropologica che riguarda tutta la società [che] non può essere solo una questione giuridica». L’assunto di partenza, infatti, è quello di smantellare i pregiudizi sul senso proprio della detenzione e sulla popolazione carceraria, considerata un pericolo per l’ordine pubblico e un problema da occultare dietro le sbarre, da isolare e marginalizzare. Sarebbe questa, quindi, secondo il sentire comune, “la soluzione migliore per mettere al sicuro la comunità” veicolata da una narrazione distorta del concetto di detenzione. Ma al di là di questa grossolana semplificazione c’è un intenso apparato di interessi collettivi che si ritengono cruciali per il benessere sociale che occorre tenere in particolare considerazione.
Il sistema giustizia e, per esso, l’istituzione carceraria sono la cartina di tornasole dello stato di salute di una nazione, di come – secondo il principio di uguaglianza dinanzi alla legge – il legislatore considera i propri cittadini, nonché dell’esercizio dei propri diritti e doveri. Per questo motivo Iorio, nel suo studio, sottolinea la centralità della persona detenuta nel rapporto con l’istituzione carceraria, soprattutto «nella consapevolezza che le cause che hanno portato a delinquere sono varie e diverse per ogni soggetto e che spesso la marginalità, la povertà educativa ed economica, sono elementi fortemente scatenanti». Prima del percorso detentivo, quindi, c’è un essere umano con un trascorso che non deve essere ignorato e di cui piuttosto lo Stato deve farsi carico per rieducare e prevenire insieme, nel rispetto dei dettami costituzionali – “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art.27) – e penitenziari – “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” (art.1 o.p.). Per questo è necessario che «il tema del carcere venga riportato all’attenzione di tutti, anche con una maggiore diffusione dei dati, accompagnata da una lettura critica dei fenomeni».
Il carcere, quindi, non può essere utilizzato come un contenitore in manca di soluzioni alternative, soprattutto alla luce di dati che vedono un aumento della popolazione detenuta a fronte di una riduzione del numero di reati gravi: con una capienza regolamentare di 51.249 posti, al 30 aprile 2023 il totale dei detenuti in carcere è di 56.674 unità, di cui il 31,3% è costituito da stranieri e solo il 4,4% da donne, con il tasso di sovraffollamento pari al 110,6%. Già nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, per trattamenti inumani o degradanti, imponendo di dotarsi di un sistema effettivo di rimedi preventivi e compensativi in materia di tutela dei diritti dei detenuti. Ma come già evidenziato, in base all’articolo 27 della Costituzione e dell’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità né in mortificazioni della dignità umana, e lo scopo della detenzione non dev’essere quello punitivo, ma quello rieducativo del condannato.
Nonostante la condanna del CEDU e le raccomandazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa (CPT), che nel Rapporto 2021 raccomandava a tutti gli Stati membri con persistente sovraffollamento carcerario di affrontare il problema con un più diffuso utilizzo delle misure alternative alla detenzione, l’Italia si conferma tra i Paesi con le carceri più affollate dell’Unione Europea, il che compromette l’incolumità, la salute fisica e mentale e i processi di rieducazione dei detenuti. Il problema, naturalmente, riguarda anche le stesse strutture detentive, spesso fatiscenti e inadeguate, carenti di spazi e infrastrutture. «Perché sia garantita una vita dignitosa al detenuto e per far sì che l’esperienza della detenzione possa rappresentare anche un’opportunità per un cambiamento reale, ai detenuti vanno date attività da fare, opportunità trattamentali, risposte alla domanda di salute o a quella di inclusione sociale, il sostegno della comunità locale. Dove queste risorse non sono adeguate alle presenze il carcere andrebbe considerato sovraffollato comunque, anche se il mero spazio fisico fosse sufficiente».
Ma in ogni caso, come sottolinea Iorio citando Alessandro Margara, c’è una gran differenza tra «il carcere della legge e il carcere che c’è», persistendo l’idea della pena come punizione, piuttosto che come un’opportunità per ripensarsi e ripartire,«un potenziamento dell’autodeterminazione nell’ottica di una vera e propria rieducazione».
L’istruzione di certo è un fattore fondamentale del trattamento penitenziario che opera nella direzione di via d’uscita dai percorsi di criminalità, ma la carenza strutturale di fondi, dotazione ridotta personale rendono il percorso accidentato e faticoso. In particolare, però, è ancora di più il lavoro a essere una leva efficace: l’art. 15 della l. 354/1975 dell’ordinamento penitenziario individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo dei detenuti stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa. Il lavoro dei detenuti può svolgersi sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, con lavori di tipo domestico, industriale e agricolo, che alle dipendenze di soggetti esterni, con significative disparità di retribuzione: per la prima categoria la remunerazione è pari ai 2/3 di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro, mentre per chi lavora per conto terzi sono uguali a quelle dei lavoratori liberi (oltre che a prevedere sgravi contributivi e crediti di imposta per le imprese). Anche se c’è stato un aumento dei detenuti-lavoratori, al 31 dicembre 2022 solo il 35,3% della popolazione detenuta lavorava e di questi, il 30,6% era alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impegnato, quindi, in piccoli servizi interni ben poco professionalizzanti, e solo il 4,6% lavorava per cooperative esterne. Affinché il lavoratore-detenuto si percepisca come parte attiva del sistema di produzione e possa contemporaneamente scoprire e valorizzare il proprio potenziale, “è determinante che l’istituzione carceraria non sia un luogo di separazione dal resto della società, ma che si costruiscano ponti che facilitino sempre di più l’incontro tra le due realtà”. La possibilità di remunerazioni pari a quelle di altri lavoratori, inoltre, permetterebbe al detenuto di offrire sostegno alla propria famiglia e di poter contribuire al suo mantenimento in carcere, contribuendo anche ad alleggerire l’aggravio di costi per lo Stato. In sintesi, sia il lavoro di qualità e remunerato che l’educazione riducono il rischio di recidiva e già questo basterebbe a incentivare il sistema di formazione carceraria.
Ma la carenza di risorse economiche, la scarsità di educatori, di personale della Polizia Penitenziaria e la mancanza di competenze formative degli operatori assegnati alle direzioni tecniche mettono un freno allo sviluppo di questi percorsi si crescita professionale, senza contare l’inadeguatezza dei macchinari per le produzioni e dei locali di lavorazione, le impervie burocratiche e organizzative. Problematiche, queste, che tra l’altro incidono sui divari tra istituto e istituto.
Sono molte le realtà virtuose che operano in collaborazione con gli istituti penitenziari per attività intramurarie ed extramurarie volte al potenziamento dei servizi di formazione dei detenuti. I corsi di formazione professionale sono organizzati a seguito di accordi con le Regioni, gli Enti locali competenti e le Agenzie formative accreditate dalle Regioni, e le stesse direzioni dei singoli istituti possono progettare attività formative, ma non basta: “L’impegno del legislatore è quello di coinvolgere sempre di più l’amministrazione penitenziaria, il Terzo settore e le aziende no profit per aumentare in modo rilevante la percentuale dei detenuti che lavorano, soprattutto all’esterno del carcere (si ricorda che a dicembre 2022 lavorava, per soggetti esterni, solo il 15,2% di loro) e sensibilizzare il mondo imprenditoriale per creare filiere produttive e lavorative coerenti con le esigenze del mercato del lavoro. Il lavoro (oltre ad abbattere la recidiva, che è al 70% tra chi non lavora, e scende al 2% per chi esce dal carcere avendo imparato un mestiere durante la reclusione) dà un senso al tempo della reclusione, ridà dignità alle persone, permettendo anche di scoprirsi dotati di capacità che non sapevano di avere e rimettersi in gioco, attivando un percorso che sia utile anche al momento dell’uscita dal carcere.”
Infondere qualità e senso a questo lavoro è un’operazione delicata e improrogabile, soprattutto alla luce delle criticità che il sistema penitenziario esperisce e delle emergenze cui si trova a far fronte. Sebbene l’ordinamento penitenziario risalga al 1975 e necessiti di un aggiornamento, ad oggi non viene applicato nei suoi dettami che pure hanno legittimità illuminista, così come non vengono applicati i sacrosanti principi costituzionali. La “persona al centro” è la via maestra da perseguire per un sano e produttivo reinserimento sociale del detenuto. «Come entrando in carcere ci si porta dietro brandelli di vita libera, così uscendone, la prigionia vissuta continua sottilmente ad agire, a lavorare nell’individuo. Gli effetti della detenzione si allungano come una scia alle spalle della persona scarcerata ma non la abbandonano, anzi, la tallonano da vicino».
Elettra Raffaela Melucci