“E’ sempre il momento giusto per fare la cosa giusta” sosteneva Martin Luther King ed in questo periodo così difficile per la vita del Paese è giusto mettere da parte individualismo e calcoli personali per ritrovare il senso più profondo (ed utile) di comunità. Siamo stati sollecitati a rispettare norme di comportamento che vanno considerate soprattutto come una rete di protezione per noi stessi e per gli altri.
Nel nostro interesse e contro quello spirito falsamente furbo che può danneggiare noi stessi e gli altri. Inutile dire che situazioni epidemiche l’umanità ne ha sofferte tante da sempre. E da sempre la prima difesa è stata quella di vivere con disciplina e nell’isolamento momentaneo che solo può impedire la diffusione del virus. In tempi antichi si chiudevano le città, compresa la più potente di tutte come era la repubblica romana. Nulla di nuovo sotto il sole, tranne che oggi siamo in grado di contenere assai meglio, se prevale la serietà come bene collettivo, le conseguenze del morbo.
Possiamo ragionare su cosa era meglio fare e quando farlo. Ma sono considerazioni che servono a poco. Assai di più serve fare un salto di qualità nella riflessione sul valore della nostra vita, sul sacrificio che il mondo della sanità affronta per fronteggiare il virus, sulla necessità di garantire nella emergenza con le sue necessarie regole rigide la tenuta del sistema economico, sulla opportunità di pensare già a come far ripartire un Paese che mostrerà di sicuro, una volta passato il peggio, nel suo tessuto sociale ed economico ferite d’ogni genere da superare con determinazione ed idee chiare.
Al momento è importante che ogni realtà organizzata in questo Paese si mostra pronta ad offrire il suo contributo per sopperire alle necessità del Paese. Ad esempio la forza che può esprimere una alleanza fra il mondo imprenditoriale e sindacale per ripartire quando sarà possibile va considerata una opportunità da non sprecare. E la tenuta, spesso in condizioni complicate, del nostro sistema sanitario nazionale deve essere di lezione per comprendere che un conto è tagliare gli sprechi ma un altro è quello di indebolirlo per risparmiare quando invece esso è un patrimonio prezioso che va migliorato anche perché non a caso viene preso ad esempio anche all’estero.
Ma questa emergenza finirà anche per testare l’efficacia degli strumenti a disposizione per difendere il lavoro, a partire dagli ammortizzatori sociali che rischiano di essere una coperta troppo corta per un’economia reale che mostra alcuni settori scoperti da essi, ma soggetti alle maggiori difficoltà: pensiamo al turismo, all’edilizia, a molti servizi. Ed anche in questo caso le risposte devono essere rapide, sottratte alle ragnatele burocratiche, mirate a far riprendere le attività.
Come in tutte le emergenze infatti c’è un aspetto, quello psicologico, che non va sottovalutato. Lo abbiamo constatato nella grande recessione che abbiamo alle spalle: la distruzione di posti di lavoro è stata arginata a fatica proprio perché la tenuta delle imprese e dei lavoratori ad un certo punto si è sentita impari rispetto alla incapacità di offrire scenari in grado di ristabilire fiducia e speranze concrete. Questo errore oggi va evitato in ogni modo.
Il disorientamento che è conseguenza inevitabile di una emergenza deve insomma trovare sponde solide in una società come quella italiana che ha le energie e le capacità organizzative per reggere all’urto della epidemia. E quindi mentre è giusto privilegiare i comportamenti che isolano il virus come lo stare a casa” è fondamentale dare l’impressione alla nostra collettività che nel frattempo c’è chi pensa e lavora a creare condizioni positive per il dopo. Le forze sociali possono essere decisive fra questi soggetti impegnati a guardare oltre questa crisi.
Un’altra considerazione va fatta: mai nella storia una epidemia è finita sotto i riflettori di una comunicazione tanto vasta, tanto capillare, tanto “incontrollabile”. La comunicazione, si sa, può avere una formidabile efficacia, ma può anche creare forti danni. Specie quando si trasforma in spettacolo ed esce dai binari di una informazione credibile e adatta a suggerire comportamenti virtuosi. Anche in questo caso il criterio principe che andrebbe seguitò è quello dell’etica professionale, della serietà professionale. Non va dimenticato che in questo Paese esiste anche una “fragilità” sociale, fatta di persone che sono avanti con l’età, malate, psicologicamente meno forti. Dovrebbe quindi esser un dovere informare e spiegare senza ricorrere a forme ossessive che possono pagare in termini di ascolti ma non sono certo rispondenti al bisogno di eviare altri motivi di angoscia ed incertezza.
L’informazione ci vuole, eccome; ma questa volta c’è l’esigenza di accompagnare in modo formativo e dissuasivo come mai gli atteggiamenti individuali e collettivi. Lo stanno facendo in molti ed un bene. Si muovono nella giusta direzione gli artisti con i loro appelli, come pure medici e virologi chiamati ad un compito difficile quale quello di dare conto della situazione ed al tempo stesso di convincere a non soffocare un sistema sanitario già sotto pressione. Eppure abbiamo constatato con i nostri occhi quante trasgressioni assurde ci sono state, dalle “bravate” giovanili, ai treni presi d’assalto, alla carica verso i supermercati. Non possiamo immaginare di sentirci al sicuro da soli. Questo è il punto. Ne usciremo senz’altro, ma come Paese, come coscienza collettiva. Le “diserzioni” non fanno altro che allungare i tempi ed aggravare la situazione, quando non provocare danno anche ai loro autori ed a quelli che gli sono vicini. Ma ci sarà un momento nel quale l’informazione e le molteplici forme di comunicazione dovranno assolvere ad un ruolo non meno significativo: quello di favorire una uscita dalla emergenza consapevole, saggia, prudente ma risoluta.
Il virus come si è visto non guarda in faccia a nessuno ma è più insidioso nei confronti degli anziani. Ecco perché a maggior ragione dobbiamo considerare la condizione anziana non come spesso si è fatto un “peso”, ma come parte integrante di una società che sa andare avanti anche perché può contare sulla esperienza, sul senso civico, sulla conoscenza della parte più anziana della popolazione.
Certo lo stare a casa cambia abitudini che vengono messe alla prova e che probabilmente non usciranno indenni da essa. E che comunque i pone rinunce, difficoltà di gestire la vita delle famiglie, quella del lavoro non meno essenziale. Ma è proprio su questo terreno che non si deve rischiare di compiere una sorta di scissione nelle decisioni che vanno adottate a livello politico e di governo con un “prima” ed un “dopo”. La politica dei due tempi, nei limiti del possibile, va evitata. Ovvero sarebbe assai meglio varare provvedimenti tempestivi ma capaci di tener conto anche nelle indifferibili esigenze sociali, come ad esempio quelle delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno figli in età scolastica mentre si decide giustamente la sospensione delle attività didattiche, verso i quali non si poteva non agire come se fossero una priorità da risolvere. E siccome di situazioni del genere se ne troveranno altre, sarà bene operare in modo tale da affrontare le questioni almeno comprendendo tutti i dati essenziali cui far fronte.
Stare a casa, comunque, non può voler dire trasformare le abitazioni in rifugi antiatomici, riempendoli di ogni bene possibile. Vuol dire invece recuperare una dimensione della vita che ci può aiutare anche a ritrovare valori che forse abbiamo un po’ troppo accantonato. Quanti infatti guardando la propria abitazione non fanno altro che osservare la storia dei propri sacrifici, della propria voglia di migliorare, di dare sicurezza, di stare meglio. Insomma anche lo stare a casa può essere un invito a non cedere, ma anzi a credere in quello che si è fatto e in quello che si può e si deve ancora fare.
Il sindacato infine un compito lo ha comunque inevitabilmente da assolvere. Non far mancare alla parte più debole della nostra società il suo impegno, la sua volontà di guardare avanti, insieme, tutti insieme.