Cesare Damiano – segretario generale Cgil Veneto
Dopo gli alti e bassi degli anni ’90, un dato è certo: il potenziale appuntamento per la costruzione di un sindacato unitario è sfuggito di mano a Cgil, Cisl e Uil.
Esistono le condizioni per costruire le basi per una rinnovata stagione di unità sindacale? I rapporti tra le confederazioni oggi sono difficili e le ferite aperte sono molte. Accordi e scioperi separati, come nel caso dei metalmeccanici o dei contratti a termine, sono gli ultimi di una serie di episodi di aspro conflitto e pongono un problema di democrazia nelle decisioni. Infatti una minoranza di iscritti a Cisl e Uil ha approvato un accordo che vale per tutti i metalmeccanici. Da dove partire?
C’è un punto che va considerato centrale per la ricostruzione di una cornice politica e di regole per un sindacato che voglia riprendere il cammino unitario: è la certificazione della sua rappresentatività. Su questo argomento lo stesso segretario della Fim Cisl nazionale, Giorgio Caprioli, si è domandato, in una intervista al Sole 24 Ore dei giorni scorsi: “Chi certifica la rappresentatività del sindacato oggi affidata alle autodichiarazioni? Come garantire votazioni e scrutini superpartes?”. Su questi interrogativi sono d’accordo.
Nella scorsa legislatura è rimasto lettera morta, anche per opposizione della Confindustria, il disegno di legge che si proponeva di disciplinare la rappresentanza e la rappresentatività del sindacato, mentre, per impulso del ministro Franco Bassanini, è andato in porto quello che riguardava il pubblico impiego. In questo modo si è creata una situazione diseguale tra lavoratori pubblici e privati.
Una legge sulla rappresentatività che coinvolga tutto il lavoro dipendente è la “cruna dell’ago” dalla quale passare per ricostruire un tessuto di regole e di convenienze per l’azione sindacale. “Pesare” le singole organizzazioni sindacali, attraverso il censimento certificato degli iscritti e dei voti conseguiti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, come avviene oggi nel settore pubblico, ha molti vantaggi e significati.
In primo luogo combina due ingredienti – gli iscritti e i lavoratori – cari a Cisl e Cgil: il primo fa riferimento al concetto di associazione, il secondo a quello di sindacato generale. La sottoscrizione di contratti, nel caso disciplinato dalla legge per il pubblico impiego, è valida solo se le sigle sindacali firmatarie rappresentano singolarmente o congiuntamente più del 50% del mix degli iscritti e dei voti, e in questo modo si impediscono gli accordi separati. Perché non estendere tale normativa anche al comparto privato? Una tale legittimazione aprirebbe infatti la strada all’”erga omnes” (cioè alla validità degli accordi nei confronti della generalità dei lavoratori) e potrebbe, se si istituisse l’istituto del referendum, essere “espressione della maggioranza dei lavoratori”, come auspicato dal protocollo del 23 luglio del 1993 sulla concertazione.
Con queste regole si opera una selezione delle sigle sindacali, come è capitato nel pubblico impiego che è passato da circa 30 a 3 sindacati nazionalmente rappresentativi (cioè Cgil, Cisl e Uil), attribuendo la rappresentatività solo a chi l’ha conseguita realmente, al di sopra di una soglia di sbarramento del 4% su tutto il territorio italiano.
In questo modo si impedisce la nascita di sindacati di comodo e la stipula di “accordi pirata” che praticano soluzioni al ribasso rispetto ai contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil, come è capitato negli anni scorsi nel settore del commercio e dei servizi, con grave danno per i lavoratori.
Come si vede, le implicazioni sono molte. E’ da qui che può ripartire una discussione, se è accompagnata dalla convinzione dell’utilità politica e sociale di una prospettiva di unità del movimento sindacale.