L’unità sindacale preoccupa Maurizio Landini. Aprendo i lavori della Conferenza di organizzazione della sua organizzazione a Rimini, il segretario generale della Cgil ha rilevato come il processo unitario abbia subito una battuta di arresto con lo sciopero generale proclamato a metà dicembre, con la Uil ma senza la Cisl. Se ne duole, ma afferma con forza che lui non vuole “un generico patto sociale o un’indistinta concertazione”, ma accordi precisi su singoli problemi con il governo. Landini, nella relazione, riprende inoltre una tesi che gli è stata cara fin dalla campagna elettorale che lo ha portato alla guida della Cgil. Ha ribadito cioe’ che la scissione del 1948, e quindi la nascita, accanto alla Cgil, di Cisl e Uil, è stata determinata da ragioni politiche, dall’influenza dei partiti che avevano deciso la ripartenza del sindacalismo dopo il fascismo. Quei partiti, dice Landini, oggi non esistono più, e dunque non c’è motivo perché non si arrivi velocemente a un sindacato unico, in quanto tale più forte e più facilmente riconoscibile dai lavoratori.
Non ha torto il segretario generale della Cgil, anche se forse sottovaluta la forza di resistenza delle burocrazie confederali che difficilmente accetterebbero un ridimensionamento. Non è sbagliato pensare che in questo caso si genererebbe una forza di reazione molto consistente da parte delle strutture esistenti, capace di impedire la nascita di questo nuovo soggetto sociale. Con questo non voglio dire che questo processo non sia possibile, la recente storia delle relazioni industriali offre dei precedenti molto significativi. Quello delle cooperative, per esempio. C’erano due centrali, quelle rosse e quelle bianche, che facevano riferimento rispettivamente al Pci e alla Dc e si contrapponevano duramente. Con la fine dei partiti quelle connotazioni sono sparite, le due centrali non si sono fuse, anche perché c’erano forti ragioni societarie, ma la battaglia è finita del tutto. Oggi l’Alleanza cui hanno dato vita assieme le centrali cooperative funziona perfettamente.
Lo stesso si può dire per le associazioni artigiane. Sono quattro, ma le due principali, Confartigianato e Cna, facevano anch’esse capo a due campi opposti, Cna di sinistra, l’altra più vicina alla Dc. Contrapposizioni che sono cadute non appena scomparsi quei partiti. Le due associazioni oggi badano ai loro interessi, che sono coincidenti e, nonostante una leggera competizione tra di loro, marciano politicamente di comune accordo. Proprio perché gli interessi sono gli stessi e non c’è motivo di farsi guerra.
Differente il caso di Rete Imprese Italia, che doveva rappresentare gli interessi di tutti gli artigiani e di tutte le associazioni del terziario. La realtà associativa ha funzionato per alcuni anni, ma sempre stentatamente, perché gli interessi di artigiani e commercianti non erano gli stessi, spesso entravano in conflitto tra loro, alla fine hanno ritenuto più giusto andare ciascuno per la propria strada. Un ultimo esempio, quello delle associazioni degli industriali. Dagli anni 50 all’inizio degli anni 90 coesistevano Confindustria da una parte, Intersind e Asap dall’altra, associazioni che raccoglievano le imprese a partecipazione statale. Per decenni si sono contrapposte: stavano dalla stessa parte, contrattavano assieme, ma con spirito differente, Intersind e Asap credendo nel valore del dialogo con la controparte, della partecipazione, Confindustria attenta alla prova di forza, alla contrapposizione accesa. Non erano solo falchi e colombe, c’era qualcosa di più, erano due strategie di politica sindacale che si contrapponevano. Poi, all’inizio degli anni 90, Asap è stata sciolta, Intersind è entrata in Confindustria, divenendo una sua federazione. Si disse che ciò era accaduto perché le partecipazioni statali erano finite: io credo che la realtà sia un’altra, anche perché le aziende pubbliche tuttora esistono e sono molto forti. Penso che quell’esperienza abbia trovato una sua conclusione, felice, quando con gli accordi del 1993 Confindustria accettò la concertazione, il dialogo, la ricerca delle ragioni altrui. Insomma, non c’erano più le ragioni per non unirsi.
Tutto questo per dire che Cgil, Cisl e Uil potranno anche avvicinarsi e dar vita a un soggetto unico, ma solo se ci saranno i motivi per farlo, se cesseranno le divergenze strategiche tra le confederazioni. Credo che per la Cisl non stare accanto a Cgil e Uil nello sciopero generale di dicembre sia stato molto duro, un’esperienza che ha provato tutto il gruppo dirigente. Che però evidentemente ha ritenuto necessario assumere decisioni diverse da quelle delle due confederazioni sorelle. La Cisl non ha mai fatto mistero del suo plauso alla concertazione e all’oggettiva necessità di un grande patto sociale, che invece Landini non ritiene utile. Dietro c’è una strategia di politica contrattuale diversa, non è solo guardare il bicchiere mezzo vuoto e crederlo mezzo pieno. E’ una diversità che a volte è sembrata assottigliarsi, ma che non è mai tramontata. La Cisl fin dalle sue origini, oltre a seguire le indicazioni della Dc, ha elaborato una linea di politica contrattuale che non ha mai abbandonato, di grande attenzione alla contrattazione e alla partecipazione. Forse, se davvero si volesse raggiungere un risultato associativo diverso da quello attuale, si dovrebbe avviare un serio confronto sui principi di base, non dandoli mai per scontati. Indagando sulle ragioni delle loro divisioni le confederazioni potrebbero riavvicinarsi, riprendere un cammino comune e questo le può portare lontano. Ma serve umiltà e tanto buon senso.
Massimo Mascini